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Presentazione, Gruppi omogenei a termine nella formazione e nella clinica medica

Sempre più di frequente le richieste di formazione alle dinamiche gruppali oggi riguardano aree di emergenza e di frontiera, dove sono necessari interventi mirati e limitati nel tempo; come scrivono Giannelli e Zucca “a nuove domande, nuove risposte”. Le istituzioni e le patologie emergenti non accettano tempi lunghi. Nel pubblico inoltre i gruppi di lavoro o di cura sono spesso caratterizzati dall’omogeneità. Omogenea può essere la richiesta da parte degli utenti (es. familiari di pazienti cardiopatici o affetti da malattia neoplastica che si riuniscono per affrontare i cambiamenti, le ansie e le angosce indotte dall’insorgere della malattia ; persone che hanno subito eventi traumatici che necessitano di una elaborazione; membri di un gruppo di lavoro accomunati dalla medesima richiesta formativa), omogenea può essere la diagnosi che caratterizza i membri del gruppo (diagnosi relativa a problemi psichici, somatici o psicosomatici) omogenee possono essere l’appartenenza di genere, la fase della vita da affrontare (adolescenza, vecchiaia) o le specifiche problematiche dei partecipanti al lavoro di gruppo.
I gruppi omogenei sono caratterizzati dalla facilitazione nei confronti dei movimenti fusionali a tutti i possibili livelli e da una maggior lentezza e resistenza nei confronti dei movimenti di individuazione. I gruppi a termine viceversa presentificano il limite; la consapevolezza del termine necessita l’elaborazione della separazione e questo stimola il movimento verso l’individuazione riducendo inevitabilmente la stasi, a volte difensiva rispetto al cambiamento, nell’area della fusionalità.
Le caratteristiche risultanti dall’omogeneità e da un predeterminato limite temporale, come sottolinea anche Giordana, sembrano essere complementari e permettere sinergicamente un utilizzo adeguato della dialettica specificatamente gruppale tra fusione e individuazione. Esse infatti consentono di fruire della condivisione, coesione e coerenza che caratterizzano positivamente i diversi livelli fusionali e pongono le basi per presentificare la separazione fin dalla prima seduta, grazie al predefinito termine temporale. La separazione divenuta pensabile stimola movimenti verso l’individuazione; separazione e individuazione, in quanto condivise, nel gruppo di pari si configurano in modo meno angoscioso che in solitudine. Anche perché il gruppo dei pari, secondo Zucca Alessandrelli, “promuove lo scambio energetico e richiama il transfert primario preoggettuale. Tutto ciò va a ripristinare la funzione di schermo protettivo, tra interno ed esterno, dell’apparato psichico”. Giannelli e Zucca Alessandrelli evidenziano come un gruppo omogeneo (relativamente al livello psicostrutturale dei partecipanti caratterizzati da uno stato di patogenia e da un Sé fragile) a termine, sia particolarmente funzionale a rinforzare l’apparato psichico e a questo proposito hanno costituito un nuovo modello di terapia di gruppo breve: il GRF (Gruppo per la Ripresa delle Funzioni).
Gli articoli raccolti per questo numero di Funzione Gamma, stimolati dalle attività di ricerca dell’Associazione A.R.G.O.(Associazione per la ricerca sul gruppo omogeneo) spaziano dalla formazione (Bruni, Corbella, De Luca, Fazio, Giordana, Marinelli, Zanasi) alla clinica (Giannelli, Zucca Alessandrelli, Micanti) e riguardano anche pazienti con una patologia organica grave. In queste situazioni obiettivo importante è, come scrive Micati, imparare a conoscere la malattia per potersene difendere e acquisire il coraggio di dichiarasi “persona”, prima che malato. In particolare per quanto riguarda la clinica medica De Luca sottolinea come all’interno di un’esperienza di formazione in psico-oncologia “Il gruppo di discussione ha avuto l’obiettivo di fornire una occasione di sperimentare le fantasie e i vissuti attivati dalla malattia oncologica. L’intento è stato anche di evidenziare la necessità e la possibilità di integrare gli aspetti tecnici della cura e il bisogno psichico di dare senso all’esperienza”.
Ogni gruppo, che sia a tempo determinato o meno, costituisce nell’arco del suo esistere una sua specifica ed irripetibile storia, ciò nondimeno è corretto supporre che dinamiche che compaiono in modo ricorrente nella vita gruppale ci consentano di fare delle generalizzazioni e di formulare ipotesi che fungano da guida per osservare e comprendere ciò che accade nel piccolo gruppo.

In particolare, come scrive Zanasi: “L’esperienza offerta dal gruppo analitico consente un apprendimento diretto degli aspetti consci ed inconsci relativi ai processi di cambiamento personali e collettivi nelle organizzazioni e nelle istituzioni sociali nelle quali gli individui, nel proprio ruolo, vivono, lavorano, cooperano, competono”.
Per lavorare analiticamente con il piccolo gruppo è necessario anche avere presente l’influenza sull’oggetto di osservazione del soggetto osservante, e dunque, nella fattispecie, l’influenza sul gruppo del conduttore. Fazio nel suo scritto ha analizzato attentamente il controtransfert del conduttore che permette “di far luce sui processi inconsci operanti nel setting e favorisce una miglior comprensione di ciò che avviene all’interno del gruppo del personale”.

L’attenzione particolare rivolta a certi fenomeni piuttosto che ad altri è correlata alle “pre-comprensioni”(1) teoriche del conduttore, al suo modo di essere persona e, come ci ricorda Rouchy (1998), anche ad elementi appartenenti al gruppo primario dell’analista stesso che hanno assunto una dimensione professionale, una volta immessi nei gruppi di appartenenza secondari. Per questo giustamente Rouchy ritiene importante cercare di precisare le variabili a partire dalle quali si organizzano i processi del gruppo, lo spazio all’interno del quale le interazioni ed anche le interpretazioni assumono significato e ciò che costituisce per l’analista una sorta di “controtransfert”, o addirittura transfert, direi io, anticipato nel confronti del gruppo che va ad istituire, e dei gruppi che ha già istituito. Rouchy sottolinea dunque la presenza di elementi inconsci derivanti anche dalle modalità dell’analista di appartenenza al proprio gruppo primario che inevitabilmente interferiscono con la costituzione del gruppo da parte del conduttore e con il suo modo di pensare al gruppo stesso. In particolare, nella costituzione di un nuovo gruppo, indipendentemente dal tipo di gruppo che si vuole costituire, il conduttore proverà ad immaginare e in qualche modo a tentare di prevedere che tipo di relazioni si potranno instaurare tra i potenziali componenti del gruppo e queste fantasie inevitabilmente saranno condizionate, anche a livello inconscio, dalla storia del conduttore e dal posto da lui occupato nel proprio originario gruppo di appartenenza.
Nelle istituzioni spesso la conduzione dei gruppi di formazione o clinici è condivisa perché, come scrive Bruni ” la doppia conduzione in ambito istituzionale e professionale permetta una più rapida organizzazione del gruppo in assetto di lavoro(…)La presenza fisica di due conduttrici in una esperienza istituzionale e non terapeutica, a termine, ha facilitato, dunque, la proiezione e l’individuazione di elementi scissi anche molto distanti”. Inoltre come è ben evidenziato negli scritti di Bruni e di Marinelli, proprio per la presenza di componenti inconsce nelle fantasie relative al gruppo che si va a costituire, è fondamentale un confronto autentico e profondo fra i conduttori, uno scambio di opinioni aperto e leale rispetto alle aspettative e alle ansie che la formazione di qualsivoglia tipo di gruppo suscita.
Bisogna sempre aver ben presente che il gruppo si costituisce come oggetto immaginario sia nella mente del conduttore che dei futuri partecipanti; il gruppo oggetto immaginario avrà caratteristiche diverse a seconda della struttura di personalità di ciascun soggetto “immaginante”.

Nei colloqui di selezione e di preparazione a qualsivoglia lavoro di gruppo però, la base dell’accordo terapeutico dovrà porsi sugli aspetti di realtà del setting, anche se il conduttore è fin dagli inizi consapevole che la storia di ognuno, il luogo da questi occupato nel gruppo di appartenenza primario e il suo stile relazionale, determineranno lo strutturarsi di quel particolare gruppo che insieme ad altri si verrà a costituire.

Spesso l’enunciazione delle “regole” necessarie per una partecipazione positiva al lavoro di gruppo, viene richiesta dall’aspirante partecipante con la semplice domanda :”ma una volta che sono nel gruppo, io cosa devo fare”? Ritengo importante rispondere a questa domanda in modo articolato così che l’accordo iniziale possa costituirsi come ponte fra le fantasie e la realtà, diminuendo l’ansia tipica di ogni inizio e la paura dell’ignoto. Ovviamente le regole enunciate, funzionali al lavoro di gruppo, variano secondo la cornice istituzionale e le condizioni effettive del lavoro. Il conduttore deve comunque avere presente a che livello di realtà è opportuno che situi i suoi interventi; ciò sarà determinato dalla specificità del gruppo che conduce e dalle tematiche in quel momento trattate .

Naturalmente nei gruppi di formazione e di clinica medica sarà opportuno fare riferimenti ai singoli individui esclusivamente nell’ambito del qui e ora, senza nessun accenno alla storia personale, a meno che non siano gli stessi partecipanti a farvi spontaneamente riferimento. E’ comunque sempre possibile evidenziare gli effetti di reciprocità tra le dinamiche personali e quelle collettive ed evidenziare alcune funzioni gruppali costanti quali:

1)    Funzione integrativa risultante dal sentimento di appartenenza.

2)    Funzione differenziante derivata dal movimento verso l’individuazione.

3) Funzione creativa che stimola produzione di nuove idee originate dal pensare

4) Funzione trasformativa di “vecchi copioni” che vengono sostituite da un pensare insaturo e aperto a nuove soluzioni.

Inoltre come sottolinea Marinelli, un ascolto e ad una conduzione dinamica stimolano l’emergere della cultura di gruppo in grado di dare significato ad aspetti fino a quel momento rimasti inespressi.

Parlare di formazione e di clinica nasce dal desiderio di attivare una ricerca che dialetticamente partecipi della polarità teorica e di quella clinica all’interno di un fecondo circolo ermeneutico; in questo contesto la formazione va ripensata come riflessione teorica ed insatura dell’esperienza, disponibile ancora a ricercare nella prassi una sua verifica od una disconferma che ne possa indurre una rimessa in discussione creativa di nuove soluzioni. Nell’ambito della ricerca teorico-clinica penso si possano assumere come paradigmi di riferimento quelli della complessità (2), della complementarità (3) e della supplementazione (4) . I concetti di complementarità e di complessità ci aiutano, insieme alla teoria analitica delle relazioni oggettuali, a comprendere le dimensioni multiple di realtà e le articolate tematiche espresse nel gruppo e a considerarle all’interno di una prospettiva epistemologica coerente e al contempo insatura e quindi sempre perfettibile.
Questi paradigmi a mio parere vanno assunti ovviamente non come “verità” ma tenendo vista la loro “esemplarità”, cioè il loro essere non un insieme astratto di norme o regole bensì una sorta di “impegni cognitivi” che formano l’ossatura per la teorizzazione e l’osservazione durante tutto quel periodo di tempo in cui si dimostrano utili per risolvere problemi differenti e in ambiti diversi.
I conduttori dei gruppi di formazione dovranno esprimere le proprie teorie di riferimento in modo che un sapere già costituito possa essere ridiscusso come problema di ricerca e i conduttori di gruppi clinici dovranno ugualmente essere consapevoli delle loro pre-comprensioni nella lettura degli accadimenti. In entrambi gli ambiti il pensiero gruppale che verrà sviluppandosi sarà il risultato “di una fusione di orizzonti”. Questa ultima affermazione ci permette di costruire un ponte fra paradigmi teorici di riferimento e prassi di intervento nella clinica dal momento che il termine “fusione di orizzonti” mi appare perfettamente congruente con l’attenzione al vertice di osservazione relazionale che sappiamo fondante il pensiero gruppale, sia dal punto di vista del gruppo inteso come oggetto di studio, sia dal punto di vista del metodo di ricerca e di intervento.

I diversi modelli di riferimento degli articoli qui riuniti, nel loro dispiegarsi in aspetti di continuità e discontinuità, a mio parere vanno visti nell’ottica della complementarità.
Consapevoli che, come sostiene Zanasi: “La partecipazione ad un gruppo analitico rappresenta un’esperienza unica che consente di osservare la complessa rete delle relazioni consapevoli ed inconsapevoli, con il loro carico di aspetti proiettivi e fantastici, che si strutturano nei gruppi umani, di qualsiasi natura essi siano: di lavoro, di studio, sociali, occasionali, affettivi, ecc..”

Per quanto riguarda in particolare la clinica medica teniamo presente ciò che scrive De Luca: ” Le implicazioni psichiche delle malattie somatiche possono essere studiate in termini di cause psichiche delle malattie, in termini di conseguenze psicosociali dell’evento malattia o, infine, come relazione multifattoriale tra cause fisiche, psichiche e sociali nell’insorgenza e nell’evoluzione della malattia”. Quest’ultima affermazione ci permette di sostenere ulteriormente che i paradigmi della complessità, complementarità e supplementazione si inverano e si confermano nel lavoro del piccolo gruppo e ci permettono di cogliere le continuità e le utili discontinuità fra formazione e prassi clinica.

 

Note

(1) A questo proposito vorrei ricordare con Gadamer che : “Non si deve credere (e questa è una fondamentale lezione della fenomenologia) che pre-comprensione abbia l’attributo negativo di pre-giudizio, ma il senso di giudizio globale inevitabilmente e intuitivamente anticipato”.
(2) “Che cosa è la complessità? – domanda E. Morin (1990) – Di primo acchito, la complessità è un tessuto (complexus : ciò che è tessuto insieme) di costituenti eterogenei inseparabilmente associati: essa pone il paradosso dell’uno e del molteplice. In secondo luogo, la complessità è effettivamente il tessuto di avvenimenti, azioni, interazioni, retroazioni, determinazioni, alee, che costituiscono il nostro mondo fenomenico. Ma la complessità si presenta allora con i tratti inquietanti dello scompiglio, dell’inestricabile, del disordine, dell’ambiguità e dell’incertezza… Da cui la necessità, ai fini della conoscenza, di mettere ordine nei fenomeni rimuovendo il disordine, di allontanare l’incerto, cioè di selezionare gli elementi di ordine e di certezza, di togliere l’ambiguità, chiarire, distinguere, gerarchizzare… Ma tali operazioni, necessarie all’intelligibilità, rischiano di rendere ciechi, se eliminano gli altri caratteri del complesso.
(3) Niels Bohr (1958) , per spiegare le apparentemente contradditorie proprietà della luce, ha utilizzato la nozione di complementarità affermando che sia l’ipotesi delle proprietà ondulatoria della luce che quella corpuscolare erano corrette e che le dualità di base potevano essere accettate senza dover arrivare alla loro mutua dissoluzione o riduzione. Bohr (op.cit.) stesso ha riconosciuto una stretta analogia tra l’origine dei fenomeni atomici e il problema dell’osservazione della psicologia umana. Scrive infatti: ” Tale confronto non è in alcun modo volto a suggerire un rapporto stretto tra fisica atomica e psicologia ma semplicemente a sottolineare un argomento epistemologico comune a entrambi i campi”. La logica del pensiero epistemologico attuale dunque non si articola più nella hegeliana dialettica degli opposti ma in quella crociana dei distinti. Dialettica dei distinti che, fra l’altro, come ci ha dimostrato più volte Lopez (1999), è essenziale alla costruzione della Persona e che al desueto aut-aut sostituisce un più costruttivo et-et che “tiene insieme e contiene paradossi non risolti che si manifestano come contraddizioni, prospettando nuove soluzioni. Essa segna il punto d’arrivo maturativo della dialettica oppositiva, come affermazione di distinzione, di differenziazione di posizioni culturali e scientifiche, punto di arrivo modulato a cui si perviene proprio superando il confronto e la contrapposizione, a volte persino violenta e spietata delle differenze”.
(4) Il concetto di ‘supplementazione’, sostenuto da Derrida (1967), fa riferimento alla presenza dell’eccesso, a quel plus di irriducibilmente inconoscibile che, mentre ci limita al contempo, come dice Levinas, “ci apre all’infinito”.

 

Bibliografia

Derrida, J. (1967). La scrittura e la differenza. Einaudi, Torino 1971.

Gadamer, H. G. (1952). Verità e metodo. Bompiani, Milano 1983.Levinas, E. Totalitè et Infini. Brodard et Taupin.

Lewin, K (1935) “The Conflict between Aristotelian and Galicean Modes of Thenght in Contemprary Psychology”. In A Dynamic Theoryof Personality: Select Papers. Mc. Graw-Hill , New York.Ed.

Rouchy, J.C. (1998) Le Groupe, Espace Analytique.Ramonville Saint-Agne.

Wallerstein (1992) The Common Ground of Psychoanalysis. Aronson, Northvale, N.J.