Presentazione, Praticare le mediazioni in gruppi terapeutici
Quanto nella vita mentale, sia primario il ruolo dell’immagine è evidente nell’esperienza che ciascuno di noi fa di se stesso, del suo proprio sé , che si presenta ,per dirlo in modo evocativo ,come una sorta di “film” interiore, che ci appassiona, ci coinvolge, ci fa gioire e soffrire e attraverso questo ci consente di essere testimoni vivi della continuità del nostro esistere. La ricerca psicoanalitica, fino dai suoi inizi, ha testimoniato e indagato il ruolo e l’importanza dell’immagine nella vita mentale, avviando un “sentiero” che, da Freud in poi, è stato battuto da molti dei suoi più grandi epigoni e che pare tuttora ricco e fecondo. Forse ,tra le altre innumerevoli ragioni, anche perché, come sostiene Gribinski,”le immagini hanno un’intelligenza acuta del mondo ,del nostro rapporto separato col mondo “e nel contempo il magico potere di rendere le separazioni incomplete,”felicemente imperfette “ .
Come un ponte che ci ancora alla terraferma ,le immagini ci ancorano al retrotterra della continuità affettiva che da’ senso alla nostra esistenza .
Mi viene in mente il ricordo del mio primo incontro con Claudine Vacheret .
Fui colpito dalla sua capacità di oscillare tra l’immediatezza e il calore nella comunicazione ed il rigore e la profondità del suo pensiero. L’immagine di questo ricordo è stata il ponte che ha denotato la mia esperienza con il metodo del Photolangage.
Utilizzando sia la sua esperienza nella formazione e nella didattica, sia quella clinico-psicoanalitica ,Claudine Vacheret ha dato corpo nella teoria e nella pratica clinica e formativa a questo metodo.
L’utilizzo in pochi anni si è diffuso a livello internazionale.
L’acquisizione del metodo richiede uno specifico training che è impostato e condotto dalla stessa Claudine Vacheret e dai suoi collaboratori.
Questo approccio, così ben descritto e reso vivo, sia dal punto di vista clinico che da quello esperienziale nell’articolo di Vacheret, presente in questo numero della rivista, è in particolare rivolto a facilitare l’intervento in tutte le situazioni nelle quali esista una difficoltà di rappresentazione e di integrazione, legata a un precario stabilirsi della funzione transizionale.
Il lavoro illustra in modo organico questa tecnica. Vorrei qui fare riferimento ad alcuni elementi del metodo che ritengo rilevanti sul piano clinico e teorico.
In particolare mi riferisco alla “ funzione integratrice dell’immaginario”; che facendo riferimento al pensiero di Winnicott, può essere pensata come uno “spazio di gioco” con molteplici valenze riferibili da un lato alla processualità intrapsichicha, intesa come svolgersi “interno” del Sè ,e dall’altra ai legami che organizzano la costruzione della dimensione relazionale e intersoggettiva.
Nello spazio di gioco, si realizza il fattore di base, che a mio avviso attraversa tutti i lavori questa edizione; infatti attraverso l’utilizzo percettivo-sensoriale della foto , che attiva le immagini interne potenziali , si dice il non dicibile e si pensa il non pensabile.
Questo avviene grazie alla funzione ponte che l’immagine ,così dinamizzata, costruisce tra l’affetto -corpo e la rappresentazione -mente.
Sempre facendo riferimento al pensiero di Winnicot possiamo pensare la necessità di un appoggio per l‘organizzarsi dell’attività transizionale. L’immagine così costituita come oggetto transizionale, consente l’esplicitarsi di una reveriè sensoriale del corpo materno.
I lavori attraversano le fasi della vita (l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta sofferente, la vecchiaia) e le dimensioni della mente (mente originaria, mente in trasformazione, mente altra, mente “bucata” ).
Nel lavoro di Pons , un gruppo di operatori muto di fronte al lutto, trova tramite il Photolangage le parole per esprimere l’impotenza, il dolore, la rabbia, la frustrazione che vive ogni giorno chi lavora in un reparto di rianimazione pediatrica e neonatale.
Qui si evidenzia ,sul piano psichico, che il silenzio “muto” in questo caso funziona come un blocco difensivo rispetto alla percezione di accadimenti interni, assumendo così una sorta di “funzione anti-lutto”. L’immagine -parola nasce attraverso un sogno della conduttrice, nel quale è lei dona il calore del suo “corpo” per riscaldare quello freddo e deanimato del bambino-gruppo. Proseguendo nella metafora dell’attraversamento della vita e della mente troviamo il lavoro di Schmitt che ,di fronte a un deficit di rappresentazione dovuta al ritardo mentale, trova l’ausilio dell’immagine come supporto ad una difficoltà di differenziazione quale quella che si riscontra in pazienti adolescenti con un se non sufficientemente coeso. In questo caso vediamo come l’ elemento supportivo che realizza la presenza integrante del corpo materno, è visibile nella funzione di rispecchiamento riparatore dello sguardo del gruppo, ma soprattutto nello sguardo delle conduttrici. Un fattore che cementando le lacune di coesione, il vuoto interno del sé, consente un riproporsi sostenibile dell’esperienza di esistenza, come separatezza.
La funzione, nel gruppo di photolangage, dello sguardo nella rielaborazione strutturante dell’immagine di sé e come sostegno al processo di separazione-individuazione è affrontata dal lavoro di Allegra.
Ciò che si delinea nell’ articolo succitato , trova esplicitazione del lavoro di Calenzo , nel quale viene analizzata la modalità con la quale il vuoto svolge una funzione centrale di organizzatore psichico della “mente” di un gruppo composto di donne con disturbi psichici . Lo scritto evidenzia come attraverso la mediazione dell’immagine possa realizzarsi la transizione dai fantasmi del vuoto individuale ai fantasmi del vuoto gruppale, e la conseguente nascita della simbolizzazione nel gruppo.
Lo sfondo istituzionale ,presente in tutti i lavori di questo numero, assume nell’articolo di Comin e De Maria , una connotazione centrale. Il vuoto istituzionale e la conseguente difficoltà di simbolizzazione terapeutica viene affrontato come elemento trasformabile ,parallelamente alle trasformazioni necessarie alla cura dei pazienti gravemente sofferenti. L’idea che ,curare le carenze del confine del sé di questi pazienti, sia possibile diminuendo la rigidità del confine tra gruppo curato e gruppo istituzionale trova applicazione attraverso l’utilizzo della tecnica “democratica” del Photolangage .
Cosi’ Il Photolangage consente la creazione di uno “spazio di gioco” condiviso anche in conseguenza del suo porre ,attraverso la mediazione della foto, un confine espressivo e rappresentativo.
Sul confine della trattabilità di cura ,che il metodo del Photolangage propone, si trova il lavoro stimolante e generoso di C. Belakhovsky & Ch. Joubert che si prendono cura dei pazienti sofferenti nel “corpo” della mente, i buchi bianchi nel cervello dei pazienti sofferenti di Alzheimer, che tanto paiono avere a che fare col senso di vuoto, di perdita e devitalizzazione che queste persone sperimentano. Questi buchi sono come “lacune” che appare possibile metaforicamente colmare, con la sostanza vitale del “corpo materno” che filtra nel dipanarsi delle immagini nel gruppo.
L’evento della paziente che viene catturata dalla foto della mamma del bambino che si guardano, l’uno nelle braccia dell’altra ,costituisce la metafora del tessuto connettivo che ho cercato di esplicitare.
M., rispecchia in questa foto ,la sua infanzia e la sua maternità, negate e vissute nella separazione. Lo spazio simbolico disegnato dalla distanza dei due che si guardano dall’interno di un abbraccio, diviene l’icona di un vuoto sostenibile: il fattore trasformativo dell’assenza in emozioni e pensieri condivisi.