Perdere la testa
Come mai la psicoanalisi si interessa all’arte?
Nel suo saggio Civitarese ci pone di fronte a tale domanda proponendo un punto di vista in grado di stimolare l’interesse del lettore. L’autore suggerisce infatti un superamento della posizione freudiana classica, tesa a concentrare il focus attentivo sulla storia dei personaggi nonchè al raggiungimento di un’interpretazione “vera”.
Lo slancio innovativo di Civitarese è rintracciabile proprio nella possibilità di mettere in discussione l’“interpretazione vera” sostenendo che un’analista-critico debba potersi aprire alla moltiplicazione infinita delle letture possibili. Soltanto avvicinandosi in modo più libero all’opera d’arte si può favorire una maggiore permeabilità alle emozioni del testo.
Così come in seduta con il paziente, l’analista critico è più attento all’emergere di un fatto scelto che alla costruzione di una teoria interpretativa coerente.
Come emerge all’interno del primo capitolo, scritto insieme a Sara Boffito e Francesco Capello, “L’elemento saliente è che si passa da una visione sostanzialistica (o dei contenuti) a una visione funzionalistica (dei contenitori psichici), dal cosa al come”. (pag 23).
Secondo una tale prospettiva, l’arte non è più solo una forma passiva di evasione ma qualcosa che coinvolge attivamente le strutture e i contenuti più profondi della nostra vita mentale, aiutandoci a dar voce alle nostre emozioni e ai nostri pensieri.
L’arte permette quindi un’esperienza di contatto con la dimensione perturbante dell’indescrivibile e dell’inesprimibile: come la reverie della madre per il bambino così la funzione estetica dell’arte sta nella sua capacità di dare una forma e una voce all’esperienza del negativo.
Nell’opera di Civitarese il negativo si delinea nell’immagine della decapitazione, del “perdere la testa”; ad esempio, in riferimento al film Niente da nascondere, l’autore rappresenta la decapitazione come figura della rinuncia alla pura ragione. Il protagonista vive un’esperienza perturbante nel ricevere videocassette anonime contenenti filmati dell’esterno della propria casa. Il finale non svela chi ha girato quei video. Per questo il video-operatore può essere l’inconscio, il regista, lo spettatore, oppure il protagonista stesso nei suoi incubi o nella realtà.
Il mancato scioglimento della trama è frustrante ma proprio per questo costringe a pensare.
Come sottolinea l’autore, nell’esperienza estetica, per intuire il senso della vita bisogna accecarsi artificialmente, come si fa in analisi per cogliere le tracce dell’inconscio. “Solo la cecità della notte porta alla visione, all’intuizione, al sogno. Solo nel buio della sala di un cinema si riescono a vedere le immagini sullo schermo” (pag. 100).
Il “perdere la testa” assume, però, molteplici sfumature di significato all’interno delle opere citate dall’autore.
Nell’ultimo capitolo, ad opera di Giuseppe Civitarese e Sara Boffito, viene preso in considerazione un video dell’AES+F Group, intitolato: “The last riot”. Al suo interno viene rappresentato un mondo in cui si può perdere la testa proprio nell’atto finale “dell’ultima rivolta”. Civitarese e Boffito provano a metaforizzare l’amputazione, o la mancata formazione di una mente, come l’impossibilità di favorire il passaggio alla simbolizzazione e alla costruzione di legami.
Prendendo in esame Persona di Bergman, l’autore rintraccia nel film il tema della decostruzione della soggettività, ossia su come nasce la psiche e su cosa può ostacolare questo processo.
Per diventare persona il soggetto deve fingere la realtà.
Bergman propone allo spettatore un’esperienza che Civitarese associa a quella del bambino: il dover attribuire un senso a ciò che gli appare enigmatico e inafferrabile.
Come sostiene l’autore del saggio: “Il processo di maturazione, anche spietato, per cui Elisabet [la protagonista del film] è passata, e che il film racconta, ha prodotto una reintegrazione tra corpo e psiche, il cui è segno che le emozioni non sono più separate dall’intelletto, e tra aspetti scissi della personalità. Abbiamo assistito insomma ad una riconciliazione. Ad una analisi riuscita”.
Nella novella del Decameron di Boccaccio, Lisabetta da Messina, il disotterrare la testa/il testo vuol dire svelare il significato, interpretare, ma quando ciò accade si trasforma in una pianta, in un vegetale. La comprensione di un testo passa quindi attraverso la non comprensione.
“Per capire le cose bisogna illuminarle con un raggio di oscurità, per vederle davvero bisogna perdere la testa, farsi veggenti quindi smarrirsi, usare una scienza mistica”. (pag 39)
La scena della decapitazione non solo è centrale per ciò che rappresenta nell’economia della trama oppure sul piano ontologico e antropologico ma anche per il suo valore di allegoria dell’esperienza estetica e come dichiarazione di poetica.
Il cambiamento di prospettiva proposto è reso possibile dall’adozione del paradigma bioniano, che implica una visione dell’inconscio in continua evoluzione e co-costruzione, ma anche dal riferimento ad una teoria della clinica sempre più orientata a dare peso non solo alla vita mentale del paziente ma anche a quella dell’analista.
Civitarese propone un appassionante parallelismo tra ciò che accade nella stanza d’analisi e l’esperienza estetica che vive il fruitore di un’opera nell’entrare in contatto con essa. Se nell’incontro tra analista e paziente si genera un campo emotivo con un suo funzionamento specifico, che prescinde dagli elementi di partenza e che è più della loro somma, allo stesso modo, il potersi aprire ad un’opera d’arte, permette un’esperienza vitale e generatrice di nuovi pensieri.
Sempre seguendo il pensiero di Bion, “Quando l’analista dà un’interpretazione, deve essere possibile […] vedere che ciò di cui egli [nel nostro caso, il critico] parla, è udibile, visibile, palpabile o odoroso in quel momento”. (pag. 24)
In tutta l’opera di Civitarese, è fondamentale anche il concetto di conflitto estetico di Meltzer
“Il bambino è affascinato dal volto bellissimo della madre ma è lacerato perché si chiede cosa essa nasconda nella sua mente, o dentro di sè, se nei suoi più segreti pensieri lo ama davvero.
Solo se questo conflitto trova una soluzione adeguata egli riesce a conquistare un sufficiente equilibrio psichico e la capacità di vivere le emozioni. Il terrore della perdita stempera nella nostalgia con cui accarezza il mondo con lo sguardo.”
Per godere della pienezza dell’esistenza, di cui è parte anche l’esperienza estetica, bisogna accettare l’idea che essa avrà una fine.” (pag 85)
Accanto a quello di conflitto estetico, Civitarese accosta il concetto di abiezione della Kristeva.
Secondo l’autrice l’orrore ha due facce, non c’è solo la paura più o meno conscia di essere abbandonati, c’è anche l’angoscia di essere vinti e asserviti, di essere riassorbiti cioè in uno stato di identificazione primaria con l’oggetto anteriore allo sviluppo di un Io, come se per nascere si dovesse prima far morire la parte da cui ci si separa, l’abiezione quindi è un passaggio necessario mai del tutto sorpassato per costruirsi un’identità. pag (34)
Il concetto di abiezione ci riavvicina a quello di conflitto estetico di Meltzer nonchè a quello di perturbante di Freud.
Nel complesso quello che Civitarese propone è un viaggio che la psicoanalisi può fare nel mondo dell’arte aprendo così ad un incontro fecondo tra le due realtà. Come ogni viaggio, è solo attraversando momenti imprevedibili che si giunge ad un pensiero nuovo.
L’arte, come il sogno, permette di far emergere ciò che a volte rimane blindato in un inconscio che lancia segnali non facilmente comprensibili.
Il saggio si configura così come un gioco di scatole cinesi, dove ogni scatola acquisisce un senso nuovo solo nell’incontro con l’altra.
L’obiettivo dell’autore sembra essere quello di stimolare la nascita di domande alle quali il lettore possa trovare delle risposte cercando di dar senso a nuove esperienze.