Intercettare il sogno
Ho letto l’ ultimo libro di Mauro Manica “Intercettare il sogno”
1– lo sento la prosecuzione del suo pensiero presente in “Ogni angelo è tremendo”
2- e ritrovo tanti temi che parlano di una lettura del lavoro dello psicoanalista, del sogno di psicoanalista-e-paziente, che mi hanno fatto fantasticare. Nel fantasticare (una delle mie risposte al libro), mi sono trovato a nuotare-naufragare nel mare di notte, che è troppo, scorgo le luci della riva, che sono poche. Il nero mi sta intorno e spaventa e sorregge, il nero che è intorno e, ancor di più là sotto e chissà chi lo abita,ora, mentre cerco di galleggiare e sono dentro a emozioni opposte, L, H, forse K (mischiato a -K), sovrastate dalla trasformazione in O, io dibattuto tra la consapevolezza dell’hilflosigkeit ( davvero colgo l’impotenza fondamentale del piccolo (dell’) uomo) e la forza della spinta a vivere, che mi dice di non andare laggiù, di sognarlo senza provarlo. Scorgo la riva, ascolto le trasformazioni del mio essere corpo che chiede di non scivolare nel buio che invita, parliamo con il linguaggio dell’effettività.
Vi sono laggiù le luci della costa, quella che conosco nella luce del giorno, ora non so, mi illudo, sarò li, fra poco, mi aggrappo al “gradiente “verità-falsità- bugia” (102) che mi permette di andare avanti. Non vi sono onde enormi – dice la mia a-verità (trasformazione in allucinosi?) – che mi consente di aver coraggio, così come l’ho avuto con i miei primi psicotici quando immaginavo di comprenderli (il Versthen di Dilthey), “affinché non si venga svuotati di vita dallo sguardo accecante di una Verità disumana”(99).
Poi, nel mio studio, ho la luce della lampada e il libro di Melville e Achab che interroga la testa del Leviatan, decapitato, e trovo le parole che riprendono il fascino di ciò che allude alla misteriosità dell’ O, quello che mi ha sconvolto nel nero del profondo del mare, che ora leggo, con altre emozioni, emozioni che sono trasformazioni da O, questa volta (107), il fantasma della cosa-in sé-inconoscibile (88).
“Parla, testa enorme e venerabile…Di tutti i palombari tu sei quello che è disceso più profondo. ..Hai dormito al fianco di tanti marinai, dove madri insonni darebbero la vita per comporli… là, in quello spaventoso mondo d’acqua , è stata la tua dimora più familiare”3.
Quando ritorno nel mare del nero, nell’acqua di notte, negli spruzzi che mi aggrediscono senza volontà di ferirmi, mi ritrovo con Mauro a “immaginare la mente “. “Il movimento, l’oscillazione tra posizioni mentali differenti, ci impegna in un costante riordinamento di stati caotici che, se non terrorizzano, sono in grado di generare sviluppo”(22).
“ E’ necessario che il piccolo dell’uomo possa ‘bere profondamente’ alle “fonti” della rèverie materna per poter “illudere” la sua sete negli sviluppi successivi” scrive ancora Mauro (32).
E’ anche cio’ che descrive la Szymborska4 con le parole della poesia?
Ne ricordo qualche verso:
“E’ da lei che è venuto fuori nel mondo, nella non-eternità Da sola gli cercò gli occhi grigi con cui mi ha guardato
Nato. Così è nato anche lui”
Mauro ricorda (appunti per una psicopatologia della meità (17) che ogni fallimento della rèverie si costruisce come “oggetto ostruente” che costringe il piccolo dell’uomo ad amputazioni più o meno estese del proprio Sé. Aggiunge: “Madre infelice corro a salvarti”(33) e ci invita a considerare che l’ombra dell’oggetto introiettato nel Sé è ciò che “dell’oggetto si è realizzato come mancanza”(34).
L’”orrido” sorride e trascina e confonde: “Corro a salvarti…”.
Sento vicino il discorso della Kristeva5, tristezza come espressione di una ferita , un’assenza innominabile, “tanto precoce – scrive – che nessun agente esterno può essere riferito ad essa”. Il lutto del depresso è della Cosa, assente di significazione, ed egli fugge inseguendo ciò che non colmerà l’assenza.
Così credo ne parli Boll, attraverso il suo clown6:
Dimenticavo di dire che oltre la malinconia e al mal di testa, godo di un’altra quasi mistica prerogativa: sono in grado di avvertire gli odori attraverso il telefono…(mia madre) prima di riattaccare udii che diceva ancora qualcosa a proposito di principi. Inoltre aveva l’odore di sempre: non sapeva di niente.
Il trauma, insomma, che Manica ripropone, rivelato dal sogno quando è solo, un sogno da solo, un sogno senza dialogo, senza tenerezza (il fattore T):
A me piacciono le camere d’albergo, mi ci trovo subito come a casa mia; più che a casa mia, davvero7.
Così allude alla mancanza, a ciò che lo sviluppo traumatico ha impedito avvenisse, la disperata ironia di Kafka.
Succede, ci ricorda Mauro, che in analisi altri sogni, i sogni fino ad ora non sognati, i sogni interrotti e riacciuffati, i sogni intercettati, i sogni costruiti insieme (la two-ness), in uno sfondo in cui il fattore T è percepibile, consentono al paziente la “progressione onirica”(108).
Allora lo sguardo dell’analista (guaritore ferito) e quello dell’altro si aprono (insieme?).
Quando lei mi ha ridato la vista, i miei occhi si sono aperti su un mondo più bello di quanto avevo potuto sognare: si, davvero, non immaginavo il giorno così chiaro, l’aria così splendente, il cielo così vasto. Ma neppure potevo immaginare così pensierosa la fronte degli uomini8. (Gide)
Gide mi ha riportato a Manica, infine: mi ha fatto rivivere integrazioni incompiute e suicidi (fisici e psichici) con immagini e intuizioni che mi hanno aiutato a capire meglio la mia rassegnazione in quelle occasioni (penso a Binswanger e Ellen West).