La rappresentazione della violenza maschile contro le donne nei programmi televisivi: category, vittime/sopravvissute e frames interpretativi

Introduzione

Questo intervento si avvale delle esperienze e dei risultati maturati durante gli ultimi dieci anni, in cui il tema principale della mia ricerca è stato quello della rappresentazione mediale della violenza maschile contro le donne. Parte di questa indagine è confluita nel testo, scritto assieme a Sveva Magaraggia, collega dell’Università Milano Bicocca, dal titolo “Relazioni Brutali. Genere e violenza nella cultura mediale” (Il Mulino 2017). Questo libro ha preso in esame anche la violenza femminile e la sua rappresentazione mediale, sostenendo che c’è una complementarietà tra i due fenomeni (violenza maschile e violenza femminile) e tra le loro rispettive narrazioni mediali. Tuttavia, mentre la violenza agita dalle donne costituisce ancora a tutti gli effetti un tabù (in una concezione stereotipata del femminile le donne danno la vita, quindi non possono dare la morte), la violenza contro le donne, perlomeno nella cultura mediale, è ampiamente accettata, normalizzata, persino occasionalmente celebrata.

Secondo la «Teoria dell’Accumulazione» [DeFleur, Dennis 1994], se i messaggi di media diversi appaiono coerenti, si corroborano l’un l’altro e ricorrono in modo persistente, a lungo termine possono esercitare influenze potenti. I pochi studi disponibili sul tema, spesso maturati nell’ambito della psicologia, testimoniano un effetto di “coltivazione”, attraverso i videogame di violenza interpersonale e sessismo ostile, indicatori di comportamenti sessualmente aggressivi [Fox, Potocki 2016].

Scopo di questo volume è stato dunque individuare alcune macro-strategie discorsive ricorrenti, che a nostro giudizio possono concorrere ad alzare la soglia della tolleranza rispetto al fenomeno della violenza maschile contro le donne: divenuto spettacolo “ordinario”, persino inflazionato, la sua pervasività può determinare una sorta di assuefazione, che indebolisce le nostre capacità di reazione. Queste macro-strategie discorsive corrispondono a precise estetiche e retoriche che risultano molto coerenti da prodotto mediale a prodotto mediale, attraversando generi diversi (TV, musica, news) e diversi contesti geo-culturali. Abbiamo dunque cercato di ricostruire queste linee di continuità nella rappresentazione della violenza maschile, analizzando testi della musica cantcategoryale italiana o del rap contemporaneo, immagini pubblicitarie e popolari serie TV e saghe cinematografiche.

La normalizzazione della violenza di genere nella cultura popolare: “naturalizzazione”, la “romaticizzazione” e “l’estetizzazione”.

Le grandi costellazioni discorsive che abbiamo individuato, rifacendoci alla letteratura di settore e alla nostra osservazione empirica, sono la “naturalizzazione”, la “romaticizzazione” e “l’estetizzazione”. La naturalizzazione è quella che avviene ogni qualvolta si costruisce e si rappresenta la violenza (contro le donne e in genere) come condotta tipicamente maschile, cui gli uomini sarebbero portati per ragioni fisiologiche: espressione, appunto, di un principio di natura. La violenza spesso non è presentata solo come condotta costituiva del maschile stesso, ma anche come principale tratto distintivo del maschile rispetto al femminile, generando per questa via costruzioni tautologiche: lui è maschio perché è violento e violento perché è maschio. Un esempio della naturalizzazione della violenza maschile proviene dal film Assassini nati – Natural Born killers(Stone, 1994). Mickey e Mallory Knox, i protagonisti, vengono da una storia di violenze familiari, eppure questa biografia funziona in modo completamente diverso: spiega la trasformazione di Mallory da ragazza bene a spietata assassina (effetto degli abusi sessuali del padre), marcando il suo agire come innaturale per il genere femminile, esito patologico di un vissuto traumatico; ma lo stesso vissuto posiziona Mickey su una linea di continuità con gli uomini della sua famiglia, come fosse espressione di un fattore genetico: «I come from violence. ‘It’s in my blood’. My dad had it, his dad had it. It’s my fate». Mickey, e soltanto Mickey, è un natural born killer [Boyle 2001, 313].

La romanticizzazione si ha quando la violenza viene rappresentata in forme tali da rafforzare la cosiddetta “ideologia dell’amore romantico”. Per definizione eterosessuale, questa ideologia è strumentale alla costruzione di rapporti di potere ben codificati e alla definizione dei generi come speculari. Le donne appaiono figure che, per amore, devono essere dedite a una forma di altruismo autosacrificale. La retorica del «dietro a ogni grande uomo vi è una grande donna» è esemplare a questo riguardo. Molta cultura mediale popolare va in questa direzione, giustificando (persino celebrando) come espressione di una relazione intensa, cifra della passione di lui ma anche della devozione di lei, che quindi scadrebbe nella vittimizzazione volontaria come forma di sublimazione, di devozione all’altro (si pensi al primo film della saga “Cinquanta sfumature di grigio”) [Brown 2014, 1127].

Con l’estetizzazione della violenza contro le donne, sessuale o fisica, letale o meno, quello che dovrebbe essere uno spettacolo generatore di ansia viene ricodificato in spettacolo godibile, a volte persino “glamour”, come avviene nelle pubblicità, soprattutto in quelle di categorie merceologiche inerenti l’estetica femminile (abiti, accessori, profumi, cosmetici). Moltissimi anche i film e le serie TV, soprattutto di genere crime, che esibiscono cadaveri femminili o scene di violenza, da cui però si rimuove la componente  orrorifica, i segni tangibili del corpo violato e lacerato. Questa “sterilizzazione” è funzionale alla spettacolarizzazione feticistica e alla promozione della violenza di genere (abbiamo infatti parlato di un processo di «an-estetizzazione», Giomi, Magaraggia 2017, 67): le donne rimangono belle e seducenti anche dopo la more, o nell’atto di essere brutalizzate.

La violenza maschile contro le donne nei news media: analisi quantitativa

E’ possibile trovare linee di continuità con le narrazioni della violenza di genere offerte dai generi dell’informazione, come la stampa e i telegiornali, senza dubbio più influenti nel processo di formazione della opinione pubblica. Qui esamineremo la news coverage del solo femminicidio (l’unica fattispecie per cui esistano dati affidabili, che consentono confronti tra realtà empirica e mass media). In Italia il femminicidio è costante: secondo EURES, sono in media 164 le donne uccise ogni anno, nel corso degli ultimi 10, e le uccisioni hanno caratteristiche altrettanto costanti: 2/3 degli eventi si consumano nelle relazioni familiari, la metà ad opera del partner e il resto ad opera di altri famigliari maschili (EURES 2014). Tuttavia, la visibilità del femminicidio nei news media ha conosciuto un’impennata solo di recente: nel 2006 il termine compariva in soli tre articoli (su tutta la stampa italiana), nel 2011 in 51 e nel 2012 in ben 751; l’anno successivo la cifra, impressionante, era divenuta di 4.986 articoli. [Bandelli, Porcelli 2016, 14]. D’altronde, il 2013 è l’anno del Decreto Legge “antifemminicidio” e l’anno in cui l’Accademia della Crusca inserirà ufficialmente il neologismo.

E’ dunque interessante dare un sguardo a come è evoluta la copertura del femminicidio dal 2006 al 2013. Una ricerca che ho condotto con il collega Fabrizio Tonello dell’Università di Padova (Giomi, Tonello 2013) ha preso in esame un’intera annualità dei tre TG Rai e dei tre TG Mediaset (edizioni di prime time). I servizi relativi ai 188 casi di uccisione di donne di quell’anno sono 473. Dei 162 casi risolti (abbiamo ovviamente ignorato gli altri), solo 81 – esattamente metà – passavano agli onori della cronaca. Ma analizzando la relazione tra vittima e autore emerge un meccanismo di rovesciamento totale: nella realtà, per ogni donna uccisa da un uomo sconosciuto (7 su 162), sono ben 20 le donne uccise da un famigliare. Questa seconda tipologia, che è notoriamente la più diffusa, ottiene però appena un quarto del numero di servizi complessivamente dedicati alle vittime di uno sconosciuto.

Questo fenomeno è noto nella letteratura inglese come “stranger danger”, [Greer 2003, 100], ovvero la rappresentazione – mistificatoria – della minaccia all’integrità fisica e sessuale delle donne come qualcosa che proviene dallo spazio pubblico. Su questa minaccia sono state costruite intere campagne elettorali e propagandate politiche di stampo securitario.

Lo stesso rovesciamento si registra per quanto riguarda la composizione in termini di nazionalità di vittima e autore: benché gli omicidi compiuti da cittadino non italiano fossero una percentuale ridotta (appena il 13%), questi pochi delitti (22) ottenevano da soli quasi un terzo dei 473 servizi totali. C’è, in altri termini, una sovraesposizione dei delitti compiuti da stranieri, in particolare dagli immigrati: l’informazione altera i connotati della violenza di genere, raccontandola come espressione di una cultura diversa dalla nostra, più barbara e primitiva, che sulle “nostre donne” si abbatte. Anche questo è diventato un elemento importante di politiche e campagne elettorali.

Nella stampa quotidiana italiana del 2103, quindi 7 anni dopo, abbiamo ripetuto la stessa indagine con lo stesso metodo. Dei 156 casi di donne uccise da un uomo, 124 erano quelli risolti, di cui abbiamo esaminato la copertura su 17 testate, per un totale di 1866 articoli. Qui i risultati sono più confortanti: le donne vittima del proprio partner o ex, ottengono una visibilità nella media (costituita da 15 articoli per vittima), non sono più sotto-rappresentate. Tuttavia sussistono delle logiche di visibilità fortemente biased: le vittime giovani hanno visibilità superiore alle anziane, e anzi, il numero degli articoli dedicato alle vittime aumenta al diminuire dell’età delle stesse. C’è una relazione inversamente proporzionale, con risultati di mistificazione piuttosto evidenti: le donne di età superiore ai 44 anni costituiscono ben il 63,5% di tutte le donne uccise; complessivamente, però, ottengono un numero di articoli che è la metà della media, dunque sono fortemente sotto-rappresentate. Altrettanto avviene per quanto riguarda la composizione etnica: quando è un femminicidio commesso da uno straniero contro una straniera, interessa poco, e dunque cala la visibilità (dalla media di 15 articoli per vittima si passa a 7); quando di tratta di uno straniero che uccide una donna italiana, la visibilità cresce esponenzialmente: si passa da una media di 15 articoli a vittima a ben 42 articoli.

La violenza maschile contro le donne nei news media: analisi qualitativa

Per quanto riguarda le forme della copertura del femminicidio, costante appare la tendenza a deresponsabilizzare l’autore. Benché si tratti spesso di “effetti collaterali” e implicazioni connesse all’uso di certe formule anziché di scelte deliberate e consapevoli, esse vanno a rafforzare quella “cultura dell’impunità” che  tanta parte ha nella violenza maschile contro le donne. Un fenomeno molto tipico è l’utilizzo del frame dell’aberrazione individuale, attraverso cui si racconta la violenza come prodotto di condizioni peculiari e fattori soggettivi (“era depresso”, “utilizzava psicofarmaci”, “aveva perso il lavoro”, “era geloso”, ecc.). In questo modo i fatti di cronaca sono “singolarizzati”, ridotti a episodi isolati: si impedisce il riconoscimento delle linee di continuità e si impedisce  una lettura della violenza di genere come problema sociale.

Nel corso del Monitoraggio della rappresentazione della figura femminile nella programmazione Rai, cui ho partecipato come unità di Roma Tre (Menduni et al., 2017), abbiamo riscontrato l’adozione del frame dell’aberrazione individuale in un numero piuttosto elevato di programmi (38%). Un esempio è costituito da un programma di RAI1, Estate in diretta, versione estiva de La vita in diretta, puntata, del 30.05.2016.  Si discute il femminicidio di Sara Di Pietrantonio, perpetrato dall’ex-fidanzato della vittima, Vincenzo Paduano, che non accetta la scelta della ragazza di porre fine alla relazione e ne pianifica l’atroce uccisione (la insegue in macchina, poi a piedi, per ricoprirla di benzina e darle fuoco). Il conduttore, e giornalista, Salvo Sottile, leggendo degli appunti, spiega:

“Io non sopportavo che fosse finita (…) lei aveva un altro”, ha confessato tra le lacrime Vincenzo Paduano. Da qualche settimana Sara aveva una relazione e questo evidentemente gli ha fatto perdere la testa”.

Addebitare il femminicidio alla perdita del raziocinio da parte dell’autore significa convocare lo schema della devianza individuale, ma anche attenuare le responsabilità dell’autore stesso. A questo contribuisce il riferimento ai suoi tormenti (le “lacrime”), che possono sollecitare atteggiamenti empatici e solidali verso di lui (mentre l’unica verso cui provare empatia dovrebbe essere la vittima). Nonostante questo incipit, altri contributi  mettono l’accento sulle componenti sociali e culturali della violenza di genere: Nicola Fusaro, criminologo, fa riferimento alla “concezione” antiquata, che continua a albergare nella testa dei giovani, della donna come proprietà (“o mia o di nessun’atro”) e come “prolungamento di se stessi”. Altrettanto fa Marida Lombardo Pijola, giornalista, che però iscrive a pieno il problema nell’ordine delle relazioni di genere: parla di una vera e propria “ideologia” sottostante alla violenza maschile sulle donne e etichettao il femminicidio come “braccio armato di un movimento maschile che tende a ripristinare i ruoli tradizionali”: spaventato dalla “forza e libertà della donna”, esso vorrebbe farla tornare ad essere “funzione del proprio sguardo, dei propri bisogni, dei propri sentimenti”.

Come si evince da questo frammento, le cose nel tempo stanno cambiando, abbiamo un panorama in cui coesistono concezioni miopi, automatismi affabulativi ma anche nuova sensibilità e conspaevolezze, da incoraggiare. Infatti il 25 Novembre saremo tutti in piazza per mostrare questa nuova sensibilità .