Gruppi omogenei. Teoria e clinica del campo mentale omogeneo. Silvia Corbella – Raffaella Girelli – Stefania Marinelli
Nel campo generale della psicoterapia di gruppo questo volume mette al centro della attenzione il tema (ed il problema) della omogeneità nei gruppi: icosiddetti gruppi omogenei. Il volume si apre con tre interviste, curate daFrancesca N.Vasta, a Howard Kibel, Robert Hinshelwood e Robi Friedman. Tutti etre gli Autori intervistati (che provenono da differenti realtà culturali:Stati Uniti, Inghilterra, Israele) convergono nel sottolineare come ladistinzione tra gruppi omogenei e classici gruppi non-omogenei (cosiddettieterogenei) non sia affatto netta e precisa. Proprio perché la dimensione dellaomogeneità è in qualche misura comunque diffusa all’interno dei gruppi è necessario di volta in volta chiarire quale uso se ne vuole fare, in vista diuna trasformazione in senso terapeutico. Dopo le prime considerazioni dicarattere introduttivo svolte nelle interviste il volume si articola in cinqueparti, con una notevole quantità di contributi, la maggior parte dei quali èdovuta ad autori che appartengono alla Associazione per la ricerca sui GruppiOmogenei (ARGO). La prima parte del volume è dedicata a Il campo omogeneo digruppo; la seconda a Il gruppo degli operatori psichiatrici; la terza a Gruppiomogenei in medicina organica; la quarta a Omogeneità e dipendenza; la quinta aGruppi omogenei nelle istituzioni. Nel complesso il volume coniuga unariflessione di carattere teorico con un interesse clinico che si declina anchenel lavoro istituzionale.
Del resto, come sottolinea Livio Comin, la prospettiva dei gruppi omogeneiha il vantaggio di incentivare la fruibilità. In un’epoca in cui –almeno in Italia – le esigenze di politica gestionale delle istituzionisanitarie sono state spesso applicate in maniera retriva ed amputate da unacultura di riferimento, tanto da essere spesso fatte oggetto di irrisione(soprattutto da chi adotta una cultura di riferimento psicoanalitica), ilmetodo di lavoro sui gruppi omogenei si propone come possibile punto diconvergenza tra esigenze di ordine clinico ed esigenze di caratteregestionale.
Ma che cosa sono i gruppi omogenei? Howard Kibel, nella intervista riportataall’inizio del volume, sostiene che un gruppo è omogeneo quando ha ununico (o alcuni) obiettivi mirati, scopi o funzioni. Come accade nel caso digruppi composti da vittime di traumi, persone malate di cancro, cardiopatici,altre patologie mediche; ma anche da persone “omogenee” rispettoall’essere tutti anziani, immigrati, alle prese con problemi legati alpensionamento o ancora – ad esempio – all’essere tutti genitori dibambini con gravi problemi caratteriali. Si tratta insomma di individuare unlivello di omogeneità e di aggregare in maniera esplicita il gruppo sulla basedi quel livello.
In ambito clinico il livello di omogeneità più immediato, ma anche piùgrossolano, è costituto dalla aggregazione in base alla diagnosi. Accanto agruppi omogenei per diagnosi si possono costituire gruppi omogenei per identitàdi genere, per fase della vita o per specifiche problematiche relazionali oanche per omogeneità di formazione (gruppi omogenei di formazione perinfermieri, assistenti sociali, educatori,etc.).
Il tema della omogeneità si dilata quindi in tutte le direzioni, aconfigurare una miriade di possibilità. Questo volume costringe a ripensare unadimensione conosciuta ma non pensata, nel senso che costringe a ripensare asituazioni di lavoro magari conosciute e sperimentate ma mostrandole sotto undiverso profilo: mettendo in primo piano i livelli di possibile omogeneitànell’ambito dei vari modi di lavorare con e nei gruppi. Questoparticolare ambito di riflessione e di applicazione clinica ha in realtà semprefatto parte della tradizione di lavoro con i gruppi, anche se da tempo eracaduto a margine della riflessione psicoanalitica.
Howard Kibel sostiene che negli anni 50 e 60, anni in cui la psicoanalisi haraggiunto la sua massima espansione, la contrapposizione tra gruppi eterogeneie gruppi omogenei si risolse a favore dei primi, soprattutto in virtù dimotivazioni di carattere politico interne alla istituzione psicoanalitica. Igruppi omogenei furono declassati a gruppi di sostegno a causa del fatto– si sosteneva – che l’omogeneità condiziona lo sviluppo didifese omogenee che limitano l’approfondimento del lavoro terapeutico. Igruppi eterogenei invece furono considerati il vero campo di applicazione dellapsicoanalisi. Del resto gli psicoanalisti hanno sempre subito il fascino dellaprofondità, quella che potremmo chiamare la vertigine dell’abisso: tuttociò che si muove alla superficie viene tendenzialmente considerato non solosuperficiale in senso svalutativo, parziale, e incompleto ma anche esoprattutto ingannevole: da guardare con sospetto. Così, in quella fase disviluppo del pensiero psicoanalitico, proporre un lavoro di gruppo cheprendesse in considerazione un elemento così superficiale e parziale come laomogeneità del gruppo stesso deve essere sembrato politicamente poco idoneo arappresentare la vera essenza del metodo psicoanalitico. Il fatto è che,prendendo forse troppo alla lettera l’idea stessa di una psicologia delprofondo, ci si è qualche volta troppo dimenticati della superficie: vale adire del fatto che, anche per occuparsi del profondo, bisogna conoscere qualistrade percorrere in superficie. Oltre che del fatto che qualche volta ilprofondo si nasconde proprio alla superficie.
Paradossalmente tuttavia, la storia della applicazione della psicoanalisi aigruppi è segnata proprio dal lavoro con gruppi omogenei: basti pensare allavoro pionieristico di Bion su gruppi di soggetti vittime di traumi di guerra.Dove la omogeneità in quel contesto era duplice: da un lato è una omogeneità dicarattere clinico, dall’altro una omogeneità di ruolo. I gruppi eranocomposti da militari e Bion stesso era all’epoca ufficiale con il gradodi maggiore. Molti degli autori che hanno sviluppato le prime riflessioni sullapsicoanalisi applicata ai gruppi appartenevano alla istituzione militare efirmavano i loro lavori facendo precedere il nome dal grado militare. Moltealtre esperienze di lavoro di gruppo hanno trovato nella dimensione dellaomogeneità uno dei loro fondamenti. A volte questa omogeneità resta sullosfondo, implicita, come una delle posizioni mentali del gruppo silente e nonesplicitata; altre volte viene definita fin da subito dall’esterno comecategoria costitutiva la identità del gruppo: assurge così al ruolo di figurache si staglia sullo sfondo.
In realtà in tutti i gruppi può essere individuata la dimensione dellaomogeneità: è importante però distinguere differenti omogeneità o diversilivelli di omogeneità: paradossalmente si potrebbe sostenere che anche laistituzione manicomiale funzionava per gruppi omogenei in base alletradizionali categorizzazioni manicomiali fondata ad esempio su comportamenti(reparto agitati, acuti, cronici, lavoratori, sudici, etc.). Un altro contoancora è la omogeneità che viene istituita dalla condivisione di un sintomospecifico (dismorfofobia per esempio o panico); diversa ancora è una omogeneitàstabilita sulla base di una diagnosi descrittivo-categoriale stile DSM o di unadiagnosi strutturale in base ai criteri di Kernberg, dove la omogeneità dellacategoria non è fondata sui criteri descrittivi fenomenici ma su criteristrutturali. Ed ancora un altro livello di omogeneità si crea in base ad unadefinizione dall’esterno (come nel caso di gruppi omogenei di familiaridi pazienti schizofrenici) o invece a partire dalla qualità della esperienzavissuta, proposta come oggetto di identificazione omogenea per tutto il gruppo,come nel caso della esperienza traumatica, della perdita e del lutto.
In un gruppo omogeneo quindi un aspetto della identità dei partecipantiviene posto in primo piano e diventa l’elemento che definisce il senso diappartenenza e la identità del gruppo stesso. Quando vale la pena istituirequesta condizione? Non tanto ad esempio nel trattamento delle psicosi, inquanto – come rileva Francesco Comelli – è difficile che gli psicoticipercepiscano una loro omogeneità e possano metterla al servizio di un lavorocomune. E’ invece importante porre in evidenza la omogeneità tutte levolte che si vuole tentare di trasformare un elemento di rottura e didiscontinuità in un elemento di continuità: trasformare qualcosa che separa edemargina in qualcosa che unisce. In questo senso sono chiarificanti leprecisazioni che Silvia Corbella e Stefania Marinelli svolgono nei rispettivicontributi e che riassumo qui di seguito:
-la istituzione di un gruppo omogeneo è particolarmente idonea alla presa incarico di situazioni psicopatologiche o sociali-esistenziali nelle quali sonopresenti in maniera massiccia componenti di inadeguatezza vissuta comeemarginante e vergognosa. Il setting del gruppo omogeneo facilita laespressione ed il riconoscimento di sentimenti che appartengono all’areadella insufficienza e della impotenza e che è possibile cominciare ad elaborareattraverso processi di legittimazione e rispecchiamento.
– il gruppo omogeneo stimola il senso di appartenenza e la facilitazione divissuti di condivisione e di fusione. Il sostare a lungo in queste fasi puòtuttavia trasformarsi in una resistenza verso i processi di separazioneindividuazione. Per controbilanciare il rischio della componente stagnanteinsita nella fusionalità è necessario introdurre un correttivo. Come scriveSilvia Corbella, il modo più facile per controbilanciare il rischio di unastagnazione fusionale è quello di porre un limite temporale. Per questo motivo“ogni gruppo in cui vengono accentuati aspetti di omogeneità a scapitodella predominanza di una composizione eterogenea dovrebbe essere a tempolimitato”.
Al fondo di queste considerazioni è insita una salutare rivalutazione dellafusionalità non vista soltanto come elemento negativo e paralizzante o comeabbraccio mortifero. In questo senso il lavoro con i gruppi omogenei confermail fatto che la fusionalità – dopo gli importanti contributi di Pallier,Bolognini, Fonda – è stata in qualche modo “sdoganata” e nonconsiderata soltanto nelle sue varianti patologiche: ha assunto piuttosto unadiversa fisionomia fondata sul riconoscimento di un bisogno di fusioneimportante e fisiologico che ci accompagna più o meno nelle diverse fasi dellavita:. Un bisogno quasi analogo al respirare e che si esprime nella tendenza astabilire limitate e selettive aree fusionali in diverse aree del sé. Ilrecupero di questa componente nelle sue varianti non patologiche ha permesso difarne uno strumento di riflessione e di uso corrente nella prassi clinica:anche nel contesto del lavoro di gruppo.