Corpi sotto assedio. Intervista ad Armando R. Favazza

Domanda. Dr Favazza, nel maggio del 2011 la Johns Hopkins University Press ha pubblicato la terza edizione di “Bodies Under Siege: Self-Mutilation, Nonsuicidal Self-Injury, and Body Modification in Culture and Psychiatry”, un testo che sin dal 1987, è considerato come il più importante lavoro sull’autolesionismo e sulle pratiche di modificazione corporea, lette nella loro complessità secondo prospettive cliniche e culturali, ponendo attenzione al rapporto con il contesto attuale.
Potrebbe introdurci al perché molti anni fa, si è iniziato ad interessare di automutilazione, e ha deciso di dedicarsi alla ricerca sul suo significato?

Armando R. Favazza. Ho avuto la fortuna di studiare con la famosa antropologa Margaret Mead, e dunque la mia identità professionale è quella di uno psichiatra culturale che si interessa alla connessione tra psichiatria clinica e antropologia culturale. Ad inizio della mia carriera, verso la fine degli anni 70’, ho scritto per lo più una serie di articoli nel tentativo di istituire negli Stati Uniti, il campo della psichiatria culturale, ad esempio nel 1978 il mio scritto-“The foundations of cultural psychiatry”-, fu l’articolo di copertina dell’American Journal of Psychiatry [135:293-303]. I miei colleghi nel campo della psichiatria culturale lavoravano principalmente con gruppi etnici diversi ma la mia Università è ubicata in un’area del Missouri a popolazione omogenea. Decisi che avevo bisogno di trovare un ambito di ricerca che provasse la rilevanza della cultura nella psichiatria tradizionale. Nel 1980 mi fu chiesto di commentare in occasione di una conferenza clinica presso la mia università, la presentazione di uno specializzando in psichiatria. Il caso oggetto della discussione era quello di una giovane diciassettenne che si era tagliata centinaia di volte. A quel tempo la spiegazione che comunemente veniva data, era che il suo tagliarsi rappresentasse una sorta di suicidio attenuato. Ciò per me non aveva alcun senso, poiché si trattava di una ragazza intelligente che se solo lo avesse voluto, avrebbe saputo come uccidersi. Ho ripreso in esame la letteratura in merito e non ho trovato alcuna cosa che mi fosse realmente di aiuto. Proprio così accadde che stessi leggendo un libro di antropologia relativo a un gruppo di guaritori Sufisti del Marocco. La loro pratica di guarigione consisteva nel riunire insieme un gruppo di pazienti malati, nel mentre una piccola banda di musicisti interpretava dei canti che aiutavano i guaritori ad eseguire una danza funzionale al raggiungimento di uno stato di trance. I guaritori a quel punto, si sfregiavano la testa, intingevano piccoli pezzi di pane nel proprio sangue, per darli poi da mangiare ai pazienti. I guaritori erano convinti che il proprio sangue avesse un potere curativo. Ciò mi colse totalmente di sorpresa poiché nella cultura occidentale, sono i pazienti a tagliarsi e non i curanti.
Mi imbattei inoltre nella lettura di un passo della Bibbia che si trova nel vangelo di Marco, ed è relativo a quando Gesù giunse nella terra dei Gadareni e gli si presentò un uomo affetto da turbe che veniva tenuto legato in un cimitero dove si tagliava notte e giorno, con piccole pietre. Gesù dopo aver accertato la possessione demoniaca, esorcizzò i demoni che abbandonarono immediatamente l’uomo ma attaccarono un branco di porci che si gettò nel fiume e annegò. Interpretai questo passo come a significare che l’uomo poteva anche aver avuto tendenze autodistruttive ma tagliandosi, era scampato al suicidio. Queste due vicende mi indussero a pensare che forse l’atto di ferirsi intenzionalmente, servisse uno scopo positivo. Fu allora che intrapresi il lungo percorso di provare a togliere via la misteriosa aurea e ad occuparmi di autolesionismo deliberato, che culminò nella pubblicazione della prima edizione di “Bodies Under Siege” (1987), ed è seguitato poi con la pubblicazione nel 2011, della terza edizione.
Ho dovuto prendere nota del fatto che la terminologia fosse cambiata negli anni. L’autolesione inferta senza intenzione suicida [NSSI], ha sostituito le vecchie espressioni di comportamento autolesionistico [SIB], autolesione deliberata, e automutilazione (sebbene io continui ad usare questo termine per fare riferimento agli atti autolesionistici di tipo maggiore come l’autocastrazione e l’enucleazione dell’occhio).

Domanda. I comportamenti autolesionistici non sono tentativi di suicidio: nelle sue ricerche, ha ben chiarito che infliggersi autolesioni è considerata una forma patologica di auto-aiuto che induce un sollievo temporaneo da un gran numero di sintomi penosi come l’ansia, la depersonalizzazione, la disperazione, rendendo possibile l’esperienza di sentirsi reali, di ristabilire un senso di ordine personale e di preservare un equilibrio.
Potrebbe spiegarci perché questi comportamenti non sono ritenuti degli atti distruttivi? E in che modo questa esperienza del sintomo autolesivo come una forma patologica di auto-aiuto, ritarda l’inizio di un trattamento clinico?

Armando R. Favazza. Per definizione, l’autolesione inferta senza intenzione suicida [NSSI], fa riferimento alla distruzione o modificazione deliberata, immediata e patologica di tessuto corporeo sano, senza che ci sia un vero proposito suicida. Questa definizione esclude le overdose da droghe e l’ingestione di sostanze estranee (tuttavia questa distinzione non è stata adottata in Inghilterra e in Australia, dando problemi nella comparazione di studi e statistiche). L’autolesione inferta senza intenzione suicida [NSSI], differisce dalle pratiche di modificazione corporea culturalmente accettate, poiché spesso è impulsiva o compulsiva ed è guidata da motivazioni patologiche che sono solitamente ma non sempre, associate con un disturbo clinico diagnosticabile che può andare dalle condizioni psicotiche ai disturbi della personalità, dai gravi ritardi mentali ai disturbi d’ansia. L’autolesione inferta senza intenzione suicida [NSSI], è considerata un atto distruttivo in quanto danneggia il tessuto corporeo ma è anche una forma di auto-aiuto nonché una prima patologica modalità di far fronte alla disregolazione emozionale e di tolleranza all’angoscia, che procura alla maggior parte delle persone, un rapido e temporaneo sollievo da una
varietà di sintomi clinici allarmanti come l’ansia, la depressione e la depersonalizzazione. Le mie ricerche su pratiche rituali che risalgono sino agli albori dell’umanità, hanno rivelato che la modificazione corporea si associa comunemente al tentativo di raggiungere spiritualità, di curare malattie fisiche e di preservare l’ordine sociale. Di conseguenza, la distruzione e la modificazione di tessuto corporeo sano, sono componenti integranti della condizione umana. Da questo punto di vista, l’autolesione inferta senza intenzione suicida [NSSI] può essere colta come ciò che procura un temporaneo sollievo dai sintomi allarmanti, nonché come una modalità da sempre adottata per ottenere benefici spirituali, una salute migliore, e l’accesso alla vita comunitaria adulta. Prima della pubblicazione del mio libro, l’autolesionismo veniva considerato unicamente come un atto orribile e senza senso che come sostenuto da un famoso psichiatra americano, portava i terapeuti a sentirsi “impotenti, atterriti, colpevoli, rabbiosi, traditi, disgustati, e tristi.” Dopo la pubblicazione del mio libro, la ricerca sull’autolesionismo [NSSI] è stata ritenuta “degna” di studio accademico, e la letteratura in merito al suo trattamento ha spostato il proprio centro dal controtransfert, a un po’ di ottimismo. Il mio lavoro ha permesso ai soggetti autolesionisti di esprimere i loro pensieri e sentimenti, sia pubblicamente che ai professionisti della salute mentale, e ciò ha fatto un’enorme differenza nel modo in cui vengono percepiti e trattati.

Domanda. Le condotte autolesionistiche rappresentano dunque una “soluzione patologica” strutturata dal soggetto in qualità di meccanismo di coping. E’ molto interessante notare come negli ultimi anni, sia stato osservato un aumento di questa patologia che spesso si presenta associata ai disturbi del comportamento alimentare.
Lei pensa che sia possibile dire che in questo caso, la strutturazione del sintomo autolesivo- che non è motivata da un’intenzione distruttiva e non mette a tacere il corpo ma è invero un modo di contattarlo-, realizzi un embrionale tentativo del soggetto di affermare la sua volontà di vita, nel mentre il disturbo alimentare persiste la negazione del corpo, delle sue sensazioni, dei suoi bisogni fisiologici vissuti come angoscianti, mettendo a tacere il corpo e dunque, confermando il suo carattere distruttivo?

Armando R. Favazza. Ho scritto estesamente anche se forse non totalmente con successo, sulla comorbilità di autolesioni inferte senza intenzione suicida [NSSI] e disturbi del comportamento alimentare, specialmente la bulimia nervosa. Ho proposto l’esistenza della sindrome da autolesione inferta senza intenzione suicida [NSSI], come un disturbo del controllo degli impulsi. La sindrome è caratterizzata da atti ripetitivi di autolesionismo- come il tagliarsi e bruciarsi la pelle, spesso descritti come atti che danno assuefazione-, alternati a periodi in cui vengono praticati altri comportamenti impulsivi come i disturbi alimentari, l’abuso di alcol/sostanze, e la cleptomania. Solitamente un sintomo può predominare su un altro a seconda del periodo dato ma possono anche coesistere più comportamenti impulsivi contemporaneamente. La sindrome tipicamente inizia nella prima adolescenza e può durare per dieci, quindici anni, senza trattamento. Le persone affette dalla sindrome sono esposte ad un elevato rischio di overdose da droghe, a causa dell’avvilimento vissuto per l’incapacità ad esercitare un controllo sui propri comportamenti. Le
dinamiche di bulimia, e autolesionismo senza intento suicida [NSSI] sono spesso simili. L’anoressia nervosa cronicizzata è solo parzialmente in rapporto all’autolesionismo [NSSI], in quanto non è una modalità impulsiva di autoferimento.

Domanda. Il ritiro dalla vita sociale è una delle conseguenze del provare vergogna per un corpo piagato. Le comunità web dedicate all’autolesionismo e frequentate da autolesionisti, offrono uno spazio virtuale in cui l’identità patologica e segreta, può essere confessata e allo stesso tempo, l’anonimato è garantito ed è preservato il ritiro sociale funzionale alla realizzazione dell’atto.
Cosa ne pensa del rischio che comporta questo bisogno di segretezza, e della reticenza nel formulare una domanda di cura, per una patologia che costringe ad un vissuto di dipendenza?

Armando R. Favazza. La morbilità sociale associata al tagliarsi in modo estensivo, è molto elevata. La presenza in internet di comunità virtuali, permette la condivisione di esperienze e funge da supporto ma alcuni siti internet necessitano di essere monitorati strettamente da vicino. Ad esempio, le vivide descrizioni delle lesioni autoinferte, possono indurre atti ripetuti di autolesionismo [NSSI]. Nel mio libro segnalo alcuni siti ma non ho familiarità con la realtà italiana.

Domanda. Lei sostiene che <<La Carta dei Diritti per gli autolesionisti, detta un primo, importante, e significativo passo nel portare questo problema all’attenzione della coscienza pubblica, e nell’orientare le riflessioni terapeutiche>>.
In questi anni, come è cambiata l’attenzione prestata a questa patologia? E in che modo l’importanza di approcciare il fenomeno autolesionistico da più prospettive, sostiene i clinici nella possibilità di trattarlo?

Armando R. Favazza. Da ultimo la “Carta dei diritti” nei paesi di lingua inglese, le mie numerose presentazioni ad auditorium di specialisti, e quelle pioneristiche a carattere informativo tenute da persone come Karen Conterio, hanno contribuito a stimolare una maggiore comprensione profana e professionale, dell’autolesionismo.
I quotidiani e gli articoli su riviste, un gran numero di libri sul tema, canzoni popolari, film e siti internet, hanno davvero cambiato il clima percepito nei riguardi dell’autolesionismo. Da tempo, l’atto di ferirsi non è più considerato un comportamento orripilante e senza senso. Resta ancora qualcosa di sconvolgente ma molte persone non ne sono più spaventate, e i soggetti autolesionisti ora iniziano ad essere trattati con più compassione.

Domanda. Dr Favazza, un’ultima domanda prima di concludere la nostra intervista: qualora gli autolesionisti arrivino a chiedere un aiuto specialistico, a quale tipo di trattamento avrebbero diritto?

Armando R. Favazza. Ho classificato l’autolesione patologica, inferta senza intenzione suicida [NSSI], secondo quattro tipologie descrittive che sono funzionali
alla clinica e necessitano di diverse modalità di trattamento. Un’affermazione comune è che la psicoterapia sia la più efficace forma di trattamento, e che non essendo chiare le cause né i suoi correlati biologici (incluso il ruolo degli oppioidi endogeni), gli studi abbiano fallito nel dimostrare i benefici specifici o l’efficacia persistente dei farmaci. Nessun farmaco riporta un’indicazione da parte dell’American FDA- Food and Drug Administration, rispetto al trattamento dell’autolesionismo ma i farmaci possono essere di aiuto nella cura dei pazienti autolesionisti, sebbene le indicazioni terapeutiche si basino principalmente sull’esperienza clinica.
L’autolesione inferta senza intenzione suicida [NSSI], di tipo maggiore– come l’enucleazione dell’occhio e l’amputazione di parti del corpo-, è principalmente associata alle psicosi [75%], alle intossicazioni da alcol/droga, al transessualismo, e a quel raro disturbo dell’identità, recentemente definito di integrità fisica. La prevenzione è fondamentale, e un dosaggio pieno di antipsicotici dovrebbe essere adottato nel caso di pazienti psicotici interessati al tema religioso, alla Bibbia, e alla sessualità, così come per quelli che modificano in modo improvviso e radicale il proprio aspetto, tagliandosi i capelli, dedicandosi a pratiche estreme di modificazione corporea o vestendosi in modo bizzarro. I pazienti in stato di eccitamento che hanno compiuto un atto maggiore di autolesionismo, sono esposti all’elevato rischio di un secondo episodio; dovrebbero essere sottoposti a un trattamento farmacologico adeguato e ricoverati fino a quando il loro stato di eccitamento sarà tenuto sotto controllo.
Gli atti di autolesionismo stereotipico– come lo sbattere la testa in modo ripetitivo, premersi gli occhi, mordersi le labbra, la lingua, le guance e le dita, e colpirsi alla faccia e alla testa-, sono prevalenti in persone con gravi ritardi mentali, e si presentano inoltre in disturbi come l’autismo e le sindromi di Tourette, de Lange, e Lesch-Nyhan, e nella neuropatia ereditaria. Dato che molti pazienti non riescono ad esprimere con le parole ciò che li turba, la valutazione implica la partecipazione dei curanti rispetto ad esempio al fatto che il comportamento possa essere una risposta al dolore. Vanno fatti gli accertamenti clinici relativi ad infezioni come l’otite media. Scegliere un adeguato trattamento farmacologico, è problematico perché alcuni pazienti rispondono ad alcuni farmaci per parte del tempo. Io comincio con la somministrazione di un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina [SSRI], poi introduco gradualmente un antipsicotico atipico, di seguito uno stabilizzatore dell’umore, poi la clonidina e infine un betabloccante. Vale la pena di fare un tentativo con il naltrexone. La terapia comportamentale è la parte più importante del trattamento.
Le autolesioni inferte in modo compulsivo– come il graffiarsi ripetitivamente e gravemente la pelle, il mordersi le unghie, la tricotillomania, e scarnificarsi (parassitosi delirante), solitamente vengono trattate in prima battuta da dermatologi e medici di famiglia. La letteratura in merito al trattamento psichiatrico è limitata ma gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina [SSRIs], il litio, le benzodiazepine e gli antipsicotici atipici (nel caso della parassitosi delirante), possono essere abbastanza efficaci. L’N-acetilcisteina può essere di aiuto con la tricotillomania. Il trattamento dovrebbe includere la psicoterapia.
Autolesioni di tipo impulsivo– come tagliarsi, bruciarsi, incidersi, e inserirsi oggetti sotto pelle-, possono essere inferte episodicamente o ripetitivamente; le più alte
percentuali di frequenza sono state riscontrate tra gli adolescenti e i giovani adulti. Molti autolesionisti impulsivi presentano in comorbilità, un disturbo clinico come ansia generalizzata, disturbo post-traumatico da stress, e depressione, che dovrebbero essere trattati sia farmacologicamente che con la psicoterapia. Non è automatico, diagnosticare il disturbo borderline di personalità. I pazienti le cui autolesioni di tipo impulsivo sono ripetitive e fuori controllo, possono soffrire di quella che ho descritto come sindrome da autolesione ripetitiva, inferta senza intenzione suicida [NSSI]. Questa sindrome comincia tipicamente in adolescenza e può durare dieci, quindici anni, durante i quali molti comportamenti impulsivi come la bulimia, la cleptomania, e l’abuso di alcol/sostanze, possono diventare manifesti. Gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina [SSRIs], contribuiscono a ridurre l’impulsività, mentre gli stabilizzatori dell’umore e gli antipsicotici atipici agiscono sulla disregolazione emozionale. La psicoterapia è essenziale, soprattutto la terapia dialettico-comportamentale. Le terapie cognitivo comportamentali e quelle interpersonali sono efficaci come lo è seppur in minor misura, la terapia psicodinamica. Il trattamento può durare per anni. Per alcuni pazienti la sindrome può cessare in modo piuttosto improvviso. Provocarsi tagli sul volto, è letto come un segno prognostico negativo, mentre la disponibilità ad incontrare un chirurgo plastico per ridurre la visibilità delle cicatrici, è considerato un segno prognostico favorevole.

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ARMANDO R. FAVAZZA: Armando Favazza è uno psichiatra americano, Professore Emerito del Dipartimento di Psichiatria dell’Università del Missouri, membro illustre dell’American Psychiatric Association e dell’American College of Psychiatrists. Nel 1979, ha cofondato The Society for the Study of Culture and Psychiatry. Ha tenuto lezioni magistrali in sessanta università canadesi e americane tra cui Harvard, Yale, Columbia, UCLA, e in molte università europee di Londra, Stoccolma, Roma e Firenze.

A. R. Favazza è autore di molte pubblicazioni, e il suo libro “Bodies Under Siege: Self-mutilation in Culture and Psychiatry” (1987), è stato il primo testo in ambito psichiatrico, sull’autolesionismo. Ha poi pubblicato “PsychoBible: Behavior, Religion, and the Holy Book” (2004), e ha inoltre curato per The Comprehensive Textbook of Psychiatry, i capitoli “Anthropology and Psychiatry” [terza edizione del 1980, quarta edizione del 1985, e ottava edizione del 2005], e “Spirituality and Psychiatry” [nona edizione del 2009].

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Bibliografia

Favazza, A. R. (2011, 3rd edition). Bodies Under Siege: Self-Mutilation, Nonsuicidal Self-Injury, and Body Modification in Culture and Psychiatry. Johns Hopkins University Press, (1st edition, 1987; 2nd edition, 1996).

Favazza, A. R., Rosenthal, R. J. (1993). Diagnostic Issues in Self Mutilation. Hosp Community Psichiatry 44: 134- 140.

Favazza, A. R. (1978). The foundations of cultural psychiatry. American Journal of Psychiatry 135:293-303.

Favazza, A. R. (2006). Self- injurious Behavior in College Students. Pediatrics- official journal of the American Academy of pediatrics 117:2283-2284. Ferenczi, S. (1932). Confusione delle lingue tra adulti e bambini. In Fondamenti di psicoanalisi, vol. III. Rimini: Guaraldi, 1974.

Ferenczi, S. (1932). Diario clinico. Milano: R. Cortina, 1988.