Diario dal manicomio. Ricordi e pensieri
Di Giorgio Antonucci, Edizioni Spirali, Pordenone. 2006
Gli anni Settanta, epoca di grande trasformazione per le Istituzioni Manicomiali, sono quelli in cui Giorgio Antonucci, intraprende la sua attività di medico di reparto presso l’Istituto Psichiatrico Osservanza di Imola. Sulla scia dell’esperienza basagliana, l’autore, con grande passione e sincero entusiasmo, opera incisivi cambiamenti all’interno dei reparti a lui affidati. Lungi dal descrivere in modo asettico e distaccato quegli anni di lavoro nelle trincee psichiatriche, l’autore condanna non solo i metodi di trattamento ma, e forse soprattutto, l’indifferenza dei colleghi e l’assuefazione del personale infermieristico rispetto all’utilizzo abituale di misure contenitive, come le camicie di forza, nonché all’emarginazione dei pazienti ridotti a involucri umani senza dignità. Antonucci osserva i ricoverati perdere ogni contatto con il mondo circostante e cerca soluzioni per scardinare l’insistente ricorso alle tecniche detentive descritte con rammarico ma con l’energia sufficiente ad attuare quei cambiamenti che l’antipsichiatria aveva solo enunciato. In tal senso, Antonucci muove una dura critica non solo alla dottrina psichiatrica, colpevole di inchiodare il malato allo stigma della diagnosi ma anche all’antipsichiatria promotrice solo di quelle che l’autore definisce “variazioni apparenti”. Antonucci oltrepassa il concetto di antipsichiatria arrivando ad autodefinirsi non-psichiatrico, sottolineando la differenza fra questa nuova posizione e quella avanzata dai padri storici dell’antipsichiatria, quali Laing e Cooper, che aggiungono il suffisso “anti” alla dottrina psichiatrica per indicare alternative antistituzionali e autogestite al ricovero manicomiale. Essere non-psichiatrico significa produrre cambiamenti sostanziali, evidenti, efficaci. Antonucci lascia che le porte delle stanze rimangano aperte, elimina le sbarre dalle finestre e vivacizza l’ambiente grazie alla collaborazione di amici artisti, inaugurando quel percorso verso l’integrazione dei soggetti più deboli che ancora oggi non è del tutto compiuto. Antesignano dell’utilizzo dell’arte per la riabilitazione psichiatrica, l’autore ci insegna che per produrre cambiamenti sono necessarie fantasia e rapidità. La prima perché è l’unica risorsa contro gli schematismi, anche architettonici e la seconda per evitare gli ostacoli ancor prima che insorgano. Le innovazioni promosse dall’autore spingono i degenti a vivere fuori dei loro letti di contenzione, delle loro stanze, fino ad affrontare il cortile e infine la società. Antonucci li libera dalle camicie di forza e dà uno spazio ai loro pensieri; si ferma ad ascoltarli e apprende, da chi ha “perduto il senno”, un altro punto di vista. L’autore procede inesorabile nel suo progetto intrecciando il ricordo di quegli anni con episodi della vita di grandi uomini inseguiti dal fantasma della follia.
Il pensiero dell’autore prende le distanze anche da quello di Jervis il quale, pur muovendo una critica forte ed estremamente politicizzata nel suo “Manuale critico di psichiatria”, non condivideva una mobilitazione diretta degli operatori psichiatrici nell’abolizione delle tecniche classiche poiché questo avrebbe costituito una negazione del proprio ruolo. La posizione di Antonucci, invece, è proprio quella di chi desidera cambiare le cose da dentro, ragionando in termini di conflitto tra individuo e società e di diritto al rispetto della persona nella sua libertà di esprimersi in una società più aperta e più tollerante. È forse nel pensiero di Szasz che si possono rintracciare delle analogie con quello di Antonucci in quanto questo autore avanza una necessità morale e sociale di tolleranza e di rispetto assoluto dei diritti dell’individuo. Szasz nel suo “I manipolatori della pazzia”, cerca di dimostrare come le credenze morali e le pratiche sociali basate sul concetto di malattia mentale costituiscono una ideologia di intolleranza. Allo stesso modo Antonucci considera l’attribuzione di malattia mentale una svalutazione della vita, un pregiudizio mentre il trattamento della malattia mentale deve realizzare una libertà ideale ed un’integrazione sociale reale.
Nel “Diario dal manicomio”, è l’esperienza vissuta in prima persona da un medico psicoanalista che ha attraversato la trasformazione dei manicomi perseguendo il valore del rispetto dell’essere umano e della sua identità, ad essere il filo conduttore che tiene insieme i ricordi, i pensieri e i sogni dei pazienti disseminati tra le pagine di questo diario.
Le testimonianze e le timide reminescenze dei ricoverati a cui finalmente qualcuno dà voce, intervallano il racconto a memoria del loro serpeggiare tra i corridoi e le stanze di degenza. Antonucci è un medico, ma prima di tutto è un uomo in ascolto dell’altro, un intellettuale capace di leggere nella follia l’essenza dell’originalità. Così lungo le pagine, si delineano le figure dei ricoverati staccandosi dallo sfondo monotono delle chiavi che girano inesorabili nelle toppe delle celle, dal bianco delle pareti e delle divise degli infermieri. Nel candore freddo di questo spazio senza tempo si fa strada l’autore che narra duri anni di lavoro mescolandoli ai ricordi, agli insegnamenti dei pazienti e alle digressioni dei filosofi. Il libro dunque si distacca da un tempo reale entrando in una dimensione di logica creatività sempre attuale e la parola diviene il secchio che tira fuori angosce, dolore, alienazione, degrado e restituisce dignità.