Flussi vitali tra Sé e Non-Sé. L’interpsichico
di S. Bolognini. Raffaello Cortina, Milano, 2019
Recensione di Adelina Detcheva
Partirei dalla pratica clinica. In Flussi vitali tra Sé e Non-Sé, Bolognini inserisce un particolare capitolo dedicato agli strumenti di un clinico; si tratta di strumenti tecnici minimi, “largamente utilizzati da molti psicoanalisti in modo naturale e pressoché istintivo nella loro pratica clinica quotidiana” (p. 77), solitamente non degni di attenzione sufficiente, “ingiustamente poco menzionati nella letteratura analitica” (idem). Dunque, il dialogo clinico naturale fa uso di: “…cioè?”, “…tipo?”, “…in che senso?”; di un “si” universalizzante (invece dell’uso del pronome personale); di “mmmh…”; di un “sei stato capace di…” rivolto al
paziente; di semplice “ripetizione di ciò che ha detto il paziente” con un cambio di tonalità; dell’uso mirato del “noi” in passaggi comunicativi specifici. Insomma, nell’ordine: di richieste di esplicitazione dell’analista, che mostrano che egli/ella non abbia capito ciò a cui allude il paziente; ma anche al “si” impersonale, che allude ad una dimensione umana allargata, depatologizza l’esperienza del paziente e lo immette in un campo comune ad altri; ai suoni che produce
l’analista, che vocalizza rumori indicativi della sua attività pensante, del suo sforzo riflessivo; proseguendo con il “sei stato capace di” qualcosa, valorizzando la competenza del paziente che procede in direzione di una propria evoluzione, restituendogli un’immagine di sé positiva, alle prese con le sfide della propria vita; ed ecco l’analista che ripete un contenuto verbalizzato dal paziente con una tonalità affettiva aggiunta, aprendo a nuovi scenari di senso; infine, ecco un analista che dice “noi” in modo strategico, intendendo un “noi” al lavoro, definendo le cornici di una coppia in alleanza che lavora assieme in modo finalizzato allo sviluppo della soggettività del paziente.
A partire da queste “minime” indicazioni tecniche, emerge un metodo psicoanalitico specifico, personalizzato, naturale, moderno, aperto ad altri sviluppi ma che, nello stesso momento, non ha perso il contatto con le origini, con il “campo base” (p. 5) personale e professionale, con i maestri degli inizi. L’analista non ha smesso di lavorare “con[1] Freud, Klein, Bion, Winnicott, Kohut, Lacan” (p. 14), ma non è divenuto “uno di costoro” (idem), perdendo “per strada se stesso” (idem). Nel triangolo “Analista-Teoria-Paziente” (p. 54), l’analista si immerge nel campo generato dal paziente, ma è anche ben consapevole che egli stesso genera un proprio campo, cosicché ciò che esce fuori da questo incontro è un campo comune e condiviso (Baranger e Baranger, 1961-2; Neri, 2007; Ferro e Civitarese, 2015), potenziale d’azione generativamente creativo, potenzialmente transformativo: “psicoanalisti non lo si è una volta per tutte a seguito di diploma ministeriale, ma lo si è giorno per giorno, seduta dopo seduta, se si mantiene vivo questo contatto con noi stessi, con i pazienti, con i colleghi e con gli oggetti significativi della nostra vita personale e scientifica” (Bolognini, 2019, p. 11). Il piano della teoria nella mente dell’analista, che poi è il piano del terzo, assume una sua collocazione sempre all’interno del campo; dunque, se io analista intrattengo un rapporto significativo con un oggetto idealizzato, che poi costituisce il mio “terzo”, forse devo fare i conti con questa identificazione totalizzante da parte mia con quell’autore, analista o supervisore che sta parlando a posto mio (“che ha sostituito [il mio] l’Io Centrale (…) fino a colonizzarlo”, p. 31), ovvero con questa identificazione che mi costringe rigidamente verso una fissità funzionale nell’ambito di “un legame identificativo univoco ed eccessivo (…) con un unico oggetto di riferimento” (idem). Lo stesso dicasi del paziente! Talvolta la domanda giusta che si deve porre l’analista è “con chi sto parlando?” (p. 117). Ovvero: “capita che non stiamo dialogando con il paziente, ma con un avamposto identificatorio[2] di esso, (…) per esempio un oggetto interno con cui il paziente è in stato di identificazione[3] (per esempio, la madre o il padre del paziente)” (idem). Nuotiamo nel mare delle identificazioni alienanti (Faimberg, 2006), spersonalizzanti, internalizzate ma non digerite, di cui non si riesce a fare un uso creativo e personale. Nel linguaggio di Bolognini (2019), parliamo di “trasformazioni da qualcuno a qualcun altro” (p. 117), di sostituzioni del Sé con oggetti altri (appartenenti ad altri, non nostri!). Insomma, «nella personalità del paziente non tutto fa parte del suo progetto vitale e non tutto quindi deve essere mandato avanti ed integrato nel corso dell’analisi» (Neri, 1993, p. 44). Occorre, allora, distinguere. Ma per fare questa operazione di connessione curativa con l’altro, per essere “davvero disponibili per questa delicata avventura relazionale” (Bolognini, 2019, p. 55) che è la situazione analitica, occorre andare “al di là dei nostri ideali astratti e talvolta perfino scissi” (idem). Occorre aver fatto “esperienza diretta di intimità interpsichica” (idem); “la teoria può davvero poco, se l’analista non ha sperimentato a sufficienza, nella sua vita personale o nella professione, come e quando il passaggio di qualcosa da un mondo interno all’altro diventa possibile” (idem).
Quella zona di contatto, di flussi vitali tra il Sé e l’altro, tra il Sé e la realtà, altro non è che una zona di intimità; “l’intimità è una dimensione che prima o poi caratterizza, di fatto, la maggior parte dei trattamenti analitici; la dimensione in cui funzioni di base come la costanza d’oggetto, il contenimento, l’holding, il rispecchiamento, la nutrizione, la condivisione, la riflessione investigativa, il riconoscimento reciproco, l’apprezzamento della creatività preconscia e del fluire delle libere associazioni, l’interpretazione e molte, molte altre, possono essere gradualmente sperimentate e utilizzate” (p. 52). Essa è la condizione di base per costituire/ricostruire una fusionalità positiva, fisiologica, naturale (Bonfiglio, 2018), in cui scambi vitali e nutritivi possono scorrere tra analista e paziente, “da interno a interno” (Bolognini, 2019, p. 18), da dentro a dentro. In questa posizione così creativa dell’autore, ciò che prende forma è una coppia che lavora con l’area interpsichica, intesa come “un livello funzionale ad alta permeabilità condivisa tra due apparati psichici” (p. 75) che, rispettosa degli assetti difensivi, apre canali originari, occlusi o mai esistiti, impostando un clima di “praticabilità dialogica condivisa” (p. 76); in essa, gli “equivalenti psichici delle funzioni corporee vitali e in particolare delle congiunzioni corporee creative[4]” (p. 64) viaggiano così come all’epoca transitavano (o sarebbero dovuti transitare) gli antichi prototipi relazionali: nutrire ed essere nutriti, dare e ricevere cure, “attraverso una parziale fusionalità non confusiva[5]” (p. 64).
Così, “se la regressione funziona come deve, la persona che inizia un suo percorso analitico non contatta solo le sue angosce e le sue frustrazioni rimosse, ma anche la ricchezza delle molti parti di sé fino a quel momento escluse in vario modo o tenute segregate l’una dall’altra” (p. 15). È la ricchezza della vitalità.
Bibliografia
Baranger, W., Baranger, M. (1961-1962), La situazione analitica come campo bipersonale, Cortina: Milano 1990.
Bonfiglio, B. (2018), Simbiosi/fusionalità e costruzione della soggettività. Parlando di clinica, FrancoAngeli: Milano.
Faimberg, H. (2006), Ascoltando tre generazioni. Legami narcisistici e identificazioni alienanti, FrancoAngeli: Milano 2016.
Ferro, A., Civitarese, G. (2015), Il campo analitico e le sue trasformazioni, Raffaello Cortina Editore: Milano.
Neri, C. (1993), Campo e fantasie trans-generazionali, in Rivista di psicoanalisi, I, Borla, Roma, 43-64.
Neri, C. (2007), La nozione allargata di campo in psicoanalisi, in Rivista di Psicoanalisi, I, Borla, Roma, 103-134.