Forme del delirio e psicopatologia di Mario Rossimonti
Mario Rossi Monti ci presenta con questo testo una importante testimonianza legata alla più enigmatica ed emblematica forma della sofferenza della mente, che nel delirio raggiunge gli stati limite esperibili da un soggetto.
A partire dal titolo, il testo stimola a immaginare il delirio nelle sue forme possibili, aprendo verso la galassia di dimensioni espressive che esso può assumere a partire da una spinta interna capace di deformare e imprimere una forma nuova rispetto al pensiero antecedente alla comparsa del delirio stesso.
L’ introduzione dell’Autore coinvolge inconsapevolmente il lettore ainterrogarsi sulla propria posizione rispetto alle relazioni fra il propriopensiero scientifico e i legami con la comunità scientifica che lo condivide.Egli riflette sui legami fra epistemofilia e condivisione dei progetti concolleghi e amici, arrivando a presentare il testo come proprio, ma anche comeemergente dal proprio gruppo di lavoro scientifico\ emotivo di cui è parte. Sevent’ anni fa egli pubblicò l’ ultimo testo scritto da solo, intitolato“La conoscenza totale. Paranoia, scienza, pseudoscienza”, dedicatoai rapporti fra sistemi deliranti e sistemi scientifici, col presente testoegli torna, a raccogliere i pensieri propri e le idee che da questi pensieri sisono sprigionate nel tempo.
L’ Autore indica quanto il mondo professionale ai tempi del primo libro,quello della psichiatria pubblica, abbia impregnato la sua anima umana escientifica con idee e stimoli attivi ancora oggi e costituenti uno“zoccolo duro”, per lo sviluppo attuale degli insegnamenti chetrasmette agli allievi dell’ Università di Urbino.
Se pensiamo all’importanza dei primi argomenti espressi da un ipoteticopaziente in analisi, ci accorgiamo che le prime cose dette dall’Autore nellibro narrano la presenza, nelle diverse fasi della vita, di un romanzo internonon così distante dal “romanzo scientifico”, che ha affrontato nelsuo sviluppo il delirio come argomento complesso per la sofferenza implicita eper l’impatto sulla mente dei terapeuti, piuttosto che come sintomo da ridurrea sola manifestazione da codificare.
Da questa “porta” del testo si può entrare ed uscire:“entrare” nel senso di tollerare il dubbio della ricerca personaleal di fuori dei codici solo operazionali e “uscire” per dirigersiverso un’ ordine del proprio romanzo scientifico, che appare così, più chesistematizzato preventivamente, stratificato come le rocce costruite da moltilivelli cronologicamente differenti.
E’ quindi il tempo del romanzo interno e scientifico dell’Autore che sipresenta come una delle fonti sotterranee che nutrono il testo, come anche lalibertà delle associazioni che fa sì che compaiano riferimenti a testiletterari preziosi.
Come l’emergenza del fiume sotterraneo propone un’ immagine di notevoleforza pressoria, anche il primo argomento che introduce al mondo del delirionasce con forza nella citazione di un autore di thriller , Klavan, nei cuitesti si scorge l’inevitabilità degli accadimenti, avvicinati da Rossi Montialle caratteristiche di inevitabilità che si riscontra nello sviluppo deldelirio.
Lo psicopatologo che incontra un delirio di un suo paziente non assistepassivamente ad un fatto clinico, ma si accosta emotivamente ad un processo, incui prendono vita le ipotesi intorno alle relazioni fra il delirio nellapersona che lo esperisce e le relazioni con la sua storia.
L’assetto interno per avvicinarsi ad un delirio che prende forma, sembrapassare per la comprensibilità della ineluttabilità e inevitabilità per quelsoggetto, di sviluppare un dato sistema delirante, come “soluzionemigliore possibile” per disporre un mondo di idee e di comportamenti chedia voce al senso della sua sofferenza.
Una radice clinico teorica del testo affonda in Pao, sul delirio come“migliore soluzione possibile”, riecheggiando in Freud il deliriocome nucleo di una verità, anche se profondamente distorta, o in Benedetti, incui l’ incontro con la persona permette un trattamento vivo del delirio e nonannullante il suo senso di profondità interna.
Esaminando un soggetto dopo la sua esplosione sintomatica, prima ancora cheil soggetto viva quella che noi chiamiamo malattia, egli avrebbe in nuce undestino che comprende già una deriva col timone orientato sulla rotta delsintomo, che noi invece scopriamo di volta in volta, pensando alla suacasualità.
Che il vento o la corrente possano poi variare questa rotta e produrne altrediverse è una questione aperta, ma rientra nella variabilità di un destinocomprendente caratteristiche di inevitabilità rispetto alla storia delleesperienze che hanno preceduto l’esordio di una condizione delirante. Questeriflessioni partono dalla considerazione che tutto ciò ci appare solo dopoavere osservato il delirio e solo dopo che il sistema delirante si è costruitonella sua struttura, ed è una considerazione “a posteriori” e non apriori.
Nell’inevitabilità del delirio è anche compreso il suo opposto, ossia la nonriproducibilità artificiale: non si può indurre un delirio ma si può immaginareuna sua processualità ed un suo sviluppo ricostruttivamente, decostruendol’incomprensibilità ed evitando che l’intellettualizzazione dei terapeutiriproduca un sistema di pensare poco pervio al cambiamento come avviene infondonella mente delirante.
Il racconto del metodo che porta l’Autore a sviluppare un suo modo peravvicinare il delirio, passa per l’ avvicinamento all’esperienza storica dellapersona delirante, quasi a suggerire una abbandono delle nostre difesepreconcette per poter comprendere l’intimità di tale processo.
Più ci occuperemo però del paziente e dell’incomprensibilità del suodelirio, per sé e per gli altri, più potremo comprendere come parlare aldelirio, dialogando col soggetto delirante, con il se stesso non delirante econ le nostre parti capaci di sostenere un simile confronto.
Mi viene in mente anche come molti giovani psicologi abbiano paura deldelirio come può sicuramente accadere, considerandolo però come una“tara” al pari degli handicap fisici, abituati ormai a vedere soloquadri compulsivi.
In un’epoca sociale di omologazioni, il delirio quindi pare un fattodisaggregativo e singolarizzante, che produce frammentazione anche del singoloverso il gruppo: la persona delirante avrà bisogno quindi di altre personecapaci di essere-con la persona delirante (né pietisticamente, né confuse conessa) e contemporaneamente capaci di essere-altrove, cioè accettando illinguaggio del delirio, ma potendolo trasferire clinicamente e teoreticamentein un quadro di riferimento.
Il “prendere sul serio” il delirio cozza cioè con un certosuperficialismo scientista che considera il delirio come un’ “ideasbagliata”, senza affrontarlo nel suo complesso carico di tolleranzadell’angoscia che occorre per un simile compito.
Dopo l’ introduzione che transita, come si diceva, dal personale -scientifico dell’autore all’interno del tema stesso, un’utile guida ai capitoliillustra al lettore il contenuto degli stessi.
Nel primo capitolo trovo significativo che l’Autore tratti il campo dipreparazione del delirio, con tutte le condizioni che accompagnano la comparsadi questo fenomeno; così l’ineffabilità del sentirsi e il concetto ditrasformazione di ciò che è familiare e abituale in un mondo che assumegradualmente tinte più persecutorie e non note.
Di conseguenza le descrizioni dei pazienti sui nuovi significati chescardinano i vecchi abituali e la fase di cambiamento dei significati interni,fina all’apofonia, ossia ad un momento di rivelazione di un nuovo suppostoordine interno, sulla base di una verità autoipnotica, deviata dal precedentelegame con la condivisione percettiva e ideativa collettiva.
Non manca nel testo un rimando ai processi costitutivi della scoperta dellanuova cosmogonia del delirante, con riferimenti ai fenomeni della scopertascientifica, vista come risultato di procedimenti anche irrazionali.
Nel caso del fisico italiano Ettore Maiorana i due fenomeni sembraronocoincidere, nel senso di un progressivo stato delirante, che non si può direesente da rapporti con lo stato di elaborazione matematico\fisica. L’intelligenza non è per così dire intelligente, nel senso che se arriva atradurre la realtà con formule matematiche, non sembra in grado di tradurrel’elemento della sofferenza psichica. In questo senso l’uomo comune e il geniopartirebbero dallo stesso punto e il creare disgiunto dal crearsi avrebbe laprognosi più infausta nei termini dell’impossibilità di comprendere la propriacostruzione del mondo interno.
In realtà la differenza fra la scoperta scientifica e il delirio consistononel fatto che la scoperta delirante è una cosmogonia totale del soggetto,mentre la scoperta scientifica si configura come tollerante una parzialità euna relatività della stessa, che deve fare i conti con i limiti della propriaapplicabilità e con una comunità scientifica.
Così la scoperta di verità dolorose e non contenibili in sé può essere piùdifficile dalla creatività geniale delle scoperte scientifiche e può in datecircostanze approdare ad un delirio come risposta a necessità di sopravvivenzerispetto ad angosce altrettanto primarie.
Credo di leggere fra le righe del testo anche un riferimento al sopravviverecome sopravvivere mentale, ma dove invece il paziente delirante intende lasopravvivenza proprio letterale ed esistenziale.
Solo dopo l’esplosione del delirio, la sua esplicitazione e il suo romperegli argini del senso comune, lo psicopatologo potrà sviluppare un proprio mododi ricostruire i significati e la storia degli accadimenti interni di unsoggetto sopraffatto da un mondo delirante.
Di non poco conto quindi è il lavoro mentale in cui è implicata la mente delterapeuta, che deve entrare nella mappatura dei significati familiari per ildelirante: ad esempio se in un Paese è la norma guidare sulla destra, losconcerto di chi è abituato a guidare sulla sinistra darà un senso dispaesamento che può somigliare ai disorientamenti che si possono incontrarereciprocamente, paziente e terapeuta, di fronte alla necessità di cambiare unriferimento familiare.
Nell’attualità gli operatori psichiatrici potrebbero essere scoraggiatidall’intraprendere un simile lavoro di mappatura, etimologico o storico,intorno a dei termini o concetti che vengono esclusi dai manuali operativi.Così il concetto di percezione delirante, non può essere disgiunto dallafenomenologia percettiva e ideativa, che rimanda ad un mondo culturale efilosofico che ha riflessi terapeutici distanti da quelli desunti dai manualiDSM, che appaiono invece finalizzati a prassi farmacologiche. Queste ultimesono più rivolte verso lo spegnimento del sintomo piuttosto che a conoscerlo,come avviene negli sviluppi del pensiero fenomenologico che tenta dicomprendere il senso dell’esistenza di un sistema delirante in una datapersona.
Daltronde la stessa diffusa presenza di quadri clinici compulsivi e tendential fare più che al pensare, ossia tendenti all’azione piuttosto che al mondodell’interiorità, appaiono in linea con l’operazionalità insita nei manualid’uso come il DSM.
Ci si può domandare quale sia il livello di rapporto della nascita di quadriclinici con le culture operanti e se i provvedimenti inconsapevoli che lepersone assumono oggi di fronte alle sofferenze mentali, non siano invece unmodo per evitare il lavoro psichico interno, temuto e non sostenutosocialmente.
Allo stesso modo in cui i bambini vengono oggi viziati e forniti di ognibene materiale, lo psichiatra dei giorni nostri teme spesso anch’egli lasofferenza interna come non mai. Frasi come non devi pensare troppo, appaionooggi in linea sia nei pazienti che negli psichiatri. Sembra cioè, e questo è unpensiero mio, non dell’autore, che gli psichiatri siano oggi dipendenti ancheloro come i loro pazienti, dai farmaci e dal DSM, avendo perso il lorospecifico psicopatologico e il loro sapere basato sull’incontro dell’esperienzadelirante e sull’esperienza della sofferenza mentale trattata in questotesto.
A titolo di esempio, leggere nel secondo capitolo la posizione dell’Autorenei confronti della percezione delirante equivale oggi come oggi a trovare unaperla ed a sperimentare la sensazione del gol segnato dalla squadra del cuore.Finalmente qualche collega, includendo in questo termine anche lopsicoanalista, che può ambire ad entrare nel delirio come esperienza daattraversare per significarla all’interno di un rapporto piuttosto che coglieresolo gli aspetti formali come farebbe uno zoologo che osserva un insetto(sebbene anche in quel caso sarebbe auspicabile una relazione con il mondoanimale e non un sadismo laboratoristico).
Fra le righe e le pieghe del testo compare una civile messa in guardiarispetto a prassi volutamente non approfondite, monodimensionali, operazionali,tendenti ad un fare e slegate dall’analizzare e incontrare le proprie paure oquelle emergenti dall’incontro con la psicosi. Tutto l’assetto angoscioso cheesplode nella mente frammentata e ipercerta del delirio viene oggicontrofobicamente isolata e schiacciata, mediante lo svuotamento di senso cheSimone Weil avrebbe definito macchinistico.
Le conseguenze sulle culture sociali appaiono inquietanti se dimentichiamoil ruolo sociale nella cultura della psichiatria, molto spesso adattata, comericorda Sala, agli assetti politico organizzativi.
Così nel testo, i riferimenti letterari (ad esempio a Pirandello nel secondocapitolo) introducono tempi e percezioni interne che supportano l’attivitàimmaginativa e clinica dello psicopatologo: non si narrano solo delle novelle,ma si narra il narrare. L’autore invita senza volerlo il lettore a trovaretesti narrativi che presentino al lettore i concetti psicopatologici di cui siparla nel testo: come nella comparsa del delirio un fatto esterno sembrarovesciare un sistema di riferimento interno funzionante da anni, nelle novellecitate il narratore è o il soggetto stesso che osserva il proprio cambiamentocon lo stupore di chi osserva un cambiamento radicale della propria vita oppureun soggetto altro dal protagonista che disegna i cambiamenti di chi vienetrasformato dalla psicosi.
Nel delirio il narratore è assente, il se stesso è estraneo a qualcosa cheavviene in lui e che lo travolge, o ipnotizzandolo oppure rovesciando schemi esistemi del proprio esperire abituale.
Compare un’alterità che colora l’esperienza in maniera diversa e che escludeil lavoro di integrazione fra le diverse parti della persona: il delirante èipercerto del proprio esame di realtà, risistemando il senso del mondocircostante in un neo-logismo che con gli stessi elementi percettivi costruisceuna narrazione che lo imprigiona.
Nel delirio quindi non è più la narrazione al servizio di chi narra, ma lanarrazione che rinarra un’altra storia in cui il soggetto è immerso senzapossibilità di uscita almeno immediata.
È quindi il percepire e il sentire ciò che può invertite la rotta: dalpercepire come funzione misurabile e astratta da un senso profondo dellepsicologie misurative, al percepire come elemento cardine di un pensierotattile che discrimina fra densità e porosità della mente.
Il problema del delirio viene presentato alla luce della difficoltà diconciliare l’ectopicità della sua presenza per il paziente (es. il mondopersecutorio che lo minaccia) e la nostra consapevolezza della nascita deldelirio legata a parti che il paziente non ha mai conosciuto o ha resoestranee.
Paradossalmente l’ineluttabilità della comparsa del delirio (el’ineluttabilità delle certezze deliranti) appaiono quasi biologiche nei suoicaratteri, a dispetto però del fatto che per conoscerle bisogna essere pronti arinunciare ad una visione esclusivamente biologica per incontrare l’esperienzadelirante sul piano clinico, oltre che esistenziale.
Ecco allora che il testo mette involontariamente il lettore nella importantecondizione di pensare al proprio sentire clinico, legando la propriaautobiografia alle disponibilità interne allo studio ed all’incontro condimensioni non note.
In fondo il libro ricerca silenziosamente, cacciando quindi nuove prede enon solo quindi coltivando campi già esistenti, le differenze fra le funzionidinamiche e relazionali che permettono al paziente di differenziare, nel tempo,il proprio pensiero non delirante da quello delirante.
Nel terzo capitolo il problema dell’appartenenza a sé del delirio proseguesulla base dei confini dell’io e in generale della mente del soggettodelirante.
La distinzione fra pensieri propri e non propri si staglia come unanecessità di comprendere il limite allo stesso modo di definire un orizzonteper limitare l’enormità del mare.
Allo psicopatologo toccherebbe, nel suo lavoro con il paziente, unaresponsabilità empatica nella comprensione dei confini che rispettino leesigenze del paziente accanto alle necessità di cura.
Un originale modo che si intuisce nel testo è legato a mio avviso nelrintracciare i confini fra le menti sia del terapeuta che del paziente, dove laprima può evidenziare i suoi strumenti relazionali, mentre la seconda puòritrovare le tracce di quegli stessi strumenti, definendo limiti e processi diriconoscimento.
A parole sembra facile: le parole potrebbero indurre a credere che leterapie siano solo questioni di parole messe bene, mentre non sfugge la durezzae la lucidità del percorso di Tausk riportato nel testo come esempio di ricercadel senso per il sintomo delirante e del suo rapporto con i confini dell’io delpaziente.
Il sintomo descritto da Tausk si riferisce ad un concetto di macchinaesterna a sé, capace di influenzare funzioni e stati emotivi che dovrebberoessere vissuti ed elaborati all’interno di sé.
La macchina influenzante descrive quindi una forma delirante caratterizzatadalla presenza di una macchina, con batterie, manovelle, meccanismi e strumentidi proiezione di immagini filmiche ecc, che ha il potere di influenzare, dicondizionare e dirigere dall’esterno alcune funzioni sessuali o somatiche o dipensiero del soggetto.
A fronte dell’indescrivibilità della macchina, fa riscontro l’azione dellastessa, consistente nella trasformazione e influenzamento delle propriefunzioni sessuali, non più sentite come proprie e in collegamento con ilproprio desiderio, quanto avvertite come estranee, sconosciute e angosciantiperché manovrate dall’esterno.
Il concetto di macchina come oggetto che scavalca i confini, serve bene arappresentare la parte psicotica della mente che aliena quelle altre parti nonintegrabili o sostenibili in sé.
Lo scopo della macchina, nel delirio della paziente di Tausk, Nathalija, eraquello di intervenire eccitando i suoi genitali: da qui Tausk formulaval’ipotesi di un disturbo legato all’idea che la macchina influenzante potesserappresentare un elemento di legame con il corpo della paziente stessa o laproiezione stessa del corpo della malata. Uno degli scopi della macchina, inquesto caso, sarebbe stato quello della disumanizzazione del genitale,intervenuta a seguito dell’impossibilità per la paziente di autorizzare ipropri desideri sessuali all’interno di sé. La complicazione e complessitàdella macchina sarebbe stata quindi complementare allo scopo di frenare edarginare le pulsioni sessuali.
I tentativi di Tausk, invece che fornire una definizione statistica o solodescrittiva, danno un senso e una significazione simbolica al quadro clinico,nell’ottica dell’estrema importanza del sintomo rispetto alla sua funzione dirappresentazione e comunicazione: nei casi incontrati dall’autore, la presenzadella macchina influenzante nel delirio dei pazienti, corrispondeva ad unaprogressiva meccanizzazione e disumanizzazione del corpo.
Nel tentativo di fornire delucidazioni a questi quadri, Tausk associal’influenza delirante della macchina, che abbatte con il suo influenzamento iconfini fra l’io del paziente e il suo mondo esterno, alla regressione versoquelle fasi della vita neonatale in cui non sussiste un confine mentale fra ioe mondo esterno.
Il disturbo dei confini dell’io sembra anche rimandare al lavoro psichiconecessario per l’assunzione della responsabilità emotiva del proprio e del nonproprio, come ad indicare la sofferenza dei soggetti che hanno perso lefunzioni di base per operare una distinzione simile.
Funzioni di base che possono essere studiate anche dalla ricercaneurocognitiva, legata al funzionamento delle strutture di base della mente eall’osservazione degli stati di assenza di confine dell’io, cercando di ambirea punti di incontro fra discipline che possono dialogare, a partire dallapsicpopatologia, da vertici differenti, ma costruttivi.
L’ autore indica proprio la necessità di rileggere criticamente leintersezioni dei diversi saperi, sia neurobiologici che psicopatologici chepsicoanalitici, per comprendere fenomeni complessi come i deliri bizzarri, chenecessitano di essere maggiormente definiti e interpretati in base al contenutoed alla reale alienazione dell’io, proprio come se fossero enigmi da risolvere,piuttosto che essere ridotti a sole voci operazionali ed omogenizzanti delDSM.
L’assenza di confini può essere considerata nelle due accezioni: o come unafunzione deficitaria del soggetto, incapace di cogliere questo aspetto, oppurecome una reale eccessiva labilità tale da permettere un flusso non controllatofra mondo interno e mondo esterno.
I flussi individuo massa possono avvenire nei due diversi sensi: in uscita,favorendo quello che Freud chiamava lo sbarazzarsi di tutto il male dellapsiche umana nella massa, dando luogo a stati diffusi di disagio mentale senzaconfini, definiti anche sindromi psicosociali (Di Chiara) o in entrata, conl’invasione di pseudoidentità al posto di una meità che non c’è più.
Come l’arte di navigare, l’arte di governare le proprie emergenze emotivenecessita di una funzione di meità, coraggioso termine che rende conto dellafunzione di riconoscimento fra se stessi e l’immagine riflessa in noi dallenostre percezioni. E’ implicito che il mancato funzionamento percettivodell’area di confine del sé, anche somatico, può fallire nel discriminare frainterno ed esterno, lasciando se stessi in balia di incursioni di elementiestranei o affidando il governo del proprio pensiero ad agenti ectopici a sestesso.
L’Autore invita a non scambiare queste assenze dell’io come esito didisturbi neurochimici, secondo i quali l’assenza dei limiti dell’io sarebbeneurologicamente determinata e totale, quando in realtà invece accade che moltipazienti presentano tale assenza di confini in maniera selettiva, quasi adindicare una scelta inconsapevole ed una radice relazionale in questifenomeni.
Il riflesso emergente dai contributi del testo è tale per cui se da un latosi osserva la forza e la ineluttabilità di queste strutture deliranti, dall’altra si può lavorare con codesti deliri, nel senso di un loro ascolto su duefronti: quello del delirio e quello della meità, originando in tal modo unacompetenza intorno al delirio sia da parte dello psicopatologo, sia da partedel paziente, sia da parte della coppia impegnata nella cura .
E descrivere un delirio in quest’ottica non è solo descriverlo, quantoincontrarlo dentro a sé come un oggetto da capire, alla stessa stregua diun’opera d’ arte e di sofferenza vivente e interagente.
I più incoercibili o i più forti nel loro sviluppo dal dubbio alla certezzadelirante, ad esempio i deliri di gelosia, sembrano richiamare intenseemotività che necessitano spesso di essere trattate relazionalmente in buoneistituzioni o in buoni luoghi di cura, in cui le risposte terapeutiche possanotenere conto delle sofferenze emotive riportate.
Al contrario però dell’incoercibilità di certi deliri, come ad esempioquello di gelosia, si nota invece come il delirio del borderline si stacchi daquesti modelli, assumendo invece un carattere di transitorietà e di perenneinstabilità.
Dai riferimenti storici che individuavano il borderline come uno psicoticoricoperto da difese solo apparentemente nevrotiche, si passa allecaratteristiche odierne, definite dai ricercatori americani come“esperienze quasi-psicotiche”, con caratteristiche di tempo e dimanifestazione definite.
Il lessico utilizzato per definire i deliri borderline, come ad es. iltermine paranoia volatile, mettono in luce l’importanza che hanno le parole perprodurre un loro effetto sensibile sulla comprensione empatica del clinico. Levelocità e i tempi dei deliri borderline fanno infatti pensare apsicotizzazioni del soggetto senza i marchi schneideriani dellaschizofrenia.
Il tempo del delirio, che nella schizofrenia sembra immoto e perenne, assumeuna diversa caratteristica, appunto volatile, nei pazienti borderline. Quandoquesti vivono una momentaneizzazione del loro delirio, danno voce a modalitàespressive di emergenza istantanea, slegandosi dalla continuità temporale.
In questo senso il capitolo sui pazienti borderline è da collegarsi con leultime parti del testo che accennano alla contemporaneità del disagio. Iborderline sarebbero pazienti che hanno segnato una sorta di adeguamento dellepsicosi ai tempi attuali, adottando una parcellizzazione non della mente comenella schizofrenia, ma del tempo e della dinamica di utilizzo del delirio. Essosembra impiegato più come pronto uso, come fast food mentale per tappare buchinell’immediato, salvo poi scadere, come un cibo non più utilizzabile, in casiin cui l’esigenza viene soddisfatta e placata. L’intolleranza all’attesa e allafrustrazione avvicinano queste forme deliranti alla questione della dipendenza:essa appare evidente in tutti i casi in cui nelle forme borderline intervieneuna richiesta al terapeuta di interventi fortissimi e tali per cui il pazienterichiede al terapeuta un intervento così massiccio e non neutrale che ladipendenza diventa implicita e ovvia. Ad esempio una paziente borderline chedice che lei si mette in una condizione di rischio di vita può implicare unaposizione difficile del terapeuta, messo a dura prova da una condizione in cuila paziente desidera che un altro salvaguardi la sua vita, funzione chedovrebbe spettare a lei stessa.
Verrebbe però da dire che per osservare e continuare ad osservare incontesti di cura i disturbi schizofrenici e\o borderline occorrano“stampelle” necessarie per paziente e terapeuta, per vivere eosservare il loro relazione: mi riferisco in sostanza per lo psicopatologo allanecessità di condividere i contributi emersi dalla clinica, e le riflessioniteoriche collegate ad esse, con i colleghi, con il proprio gruppo di lavoro, econ le istituzioni. Una simile impalcatura con ponteggi può essere in certefasi della vita del paziente necessaria perché la relazione con il terapeutasia salvaguardata o avviata. Si apre qui la questione di quanto ad esempio leistituzioni che hanno in cura un paziente consentano che un proprio assistitoabbia una relazione terapeutica partecipata e profonda se esse invece adottanomodalità di lavoro ormai adattate ad un solo vertice tecnologico. Quanto cioè imodelli istituzionali tendano a quella “primavera silenziosa” dicui si accenna sul testo per indicare un’immagine di crescita tecnologica, pocospontanea, normalizzata, delle esperienze mentali, in luogo di una libertà diconoscere le forme dell’espressione del disagio che la mente di un soggettosceglie inconsapevolmente come migliore soluzione possibile.
La posizione dell’Autore riflette quella dell’onestà intellettuale del porsia distanze vicine alla relazione, ma rispettose delle diverse forme del sapereche forniscono diversi vertici di lettura del delirio.
Al contempo però, la posizione che emerge dal testo è coraggiosa nelloschierarsi a favore della restituzione di un senso all’insensato, scorgendodietro agli importanti sistemi difensivi un possibile alloggio a sofferenzeinterne non ancora rappresentabili dal soggetto stesso. La partita che si giocain una terapia e in un’analisi è quindi riferita al proteggere il soggetto e lapropria vita interna da sofferenze che potranno nei casi favorevoli diventaresentimenti e stati d’animo emotivi cui l’identità potrà attingere, senzascinderli dal pensiero.
E’ pertanto forte il riferimento al metodo: ossia alla necessità, dopoaccurate e motivate formazioni, di abbandonare il solo riferimento cognitivo,intellettualizzato del soffrire, per lasciarsi “sporcare”dall’incontro col paziente, in virtù della trasformazione del sintomo osservatoin un vissuto più o meno già rappresentabile.
A titolo di esempio viene anche riportato il caso dell’etnologo chenecessita di mettere temporaneamente in un retroscena un proprio linguaggioimparato sui libri, per mettere sulla scena invece le parti di sé che se stessoe il paziente possono tentare di comprendere vicendevolmente con tempidiversi.
Tutto il sapere di cui ogni studioso è fiero e che giustamente costituisceparte del proprio sapere può, sia con pazienti stranieri, sia con pazientideliranti, essere messo fra parentesi in attesa che le differenze dei sistemilinguistici interni, possano essere evidenti.
Ed è nella parte finale del testo, come in un finale di partita in cuimatura il match point, che fiorisce l’elemento dialogico aperto verso ilfuturo: l’integrazione del presente contemporaneo con il bagaglio di chi haattraversato idealmente le diverse fasi dello studio psicopatologico. Molte lequestioni affrontate con apertura: fra esse ricordo gli interrogativi intornoai cambiamenti non solo dei disagi trattati, ma anche dei terapeuti, con laconsiderazione dell’estrema importanza del pensiero psicoanalitico oggi, purchènon scevro da contatti col mondo delle istituzioni e con un continuoreinterrogarsi sulla contemporaneità del disagio psichico.
La difficile posizione di chi si vuole dedicare ai trattamenti analiticipassa per la considerazione che si tratta spesso di accompagnare e costruire lepossibilità per il paziente di accedere ad un mondo simbolico. Trovano cosìspazio discipline vicine, ad esempio di carattere pedagogico, che possonotrovare sinergie nell’ipotesi di attutire l’iperconcretezza del mondo attuale avantaggio di dispositivi adatti a percepire il cosiddetto“negativo” dell’esperienza umana, apparentemente non esperito etemuto dal culturale operante. In questo “negativo” rientra anchela depressione cronica diffusa che pare permeare molti soggetti, senza che essila riescano a percepire e a riconoscere, in un ambito di cancellazionedell’esperienza interiore.
La caduta dei garanti metapsichici e metasociali pare in linea con l’era delvuoto e della liquidità dell’essere citata dai sociologi e viene nel testodeclinata per le categorie dell’infanzia, del trauma, della genitorialià e delnarcisismo.
Il testo appare in conclusione come un mattone importante per comprendere leforme del delirio e per raccordarle con la contemporaneità del soffrire. E’indicato quindi agli studenti che vogliano compiere un avvicinamento sentito aicosiddetti casi gravi, come anche a chi è più in là col lavoro clinico.
E’ a mio avviso leggibile anche per coloro i quali desiderino raccordare piùlivelli di sapere, in quanto sono molto ricche le citazioni di studi siapsicopatologici che di discipline affini o ad essa collegate. Inoltre la partefinale del testo apre a mio avviso verso la complessità del contemporaneo,ponendosi quindi come parte dialogica e foriera di sviluppi ancora non noti, masicuramente già fra noi.