Gruppale-duale. Il lavoro clinico in psicoanalisi con bambini e genitori

A cura di Giorgio Corrente
Volume primo

Gli interventi contenuti nel libro considerano un’ampia gamma di situazioni con cui si confrontano i terapeuti infantili, che sanno di dover sempre lavorare con la mente in contesti multipersonali, anche quando il piccolo paziente è solo nella stanza con l’analista: i genitori sono sempre coprotagonisti, i pari sono sempre un riferimento identitario fondamentale.
Poiché non è possibile rendere conto in modo soddisfacente di tutti gli argomenti trattati, cercherò di accennarne alcuni, lasciando ai lettori del libro il piacere di ulteriori scoperte.
Alcuni contributi parlano di gruppi di bambini. “Un’esperienza molto particolare” quella con i gruppi di bambini, dice Alfredo Lombardozzi nel suo interessante contributo. Difficile concettualizzarla, ancor più difficile condividerla. Forse questo è uno dei motivi per cui sui gruppi di bambini si scrive relativamente poco, rispetto alla diffusione dei gruppi sul territorio e nei servizi. Prezioso quindi il contributo dei colleghi, che ci hanno messo a disposizione la ricchezza delle loro esperienze, mantenendo viva attraverso lo snodarsi dei diversi interventi l’atmosfera di discorso del gruppo nel gruppo; un discorso aperto, che invita il lettore ad entrare, lo stimola ad accostare il suo pensiero a quello del gruppo; un discorso che rivela in ogni momento la feconda aderenza della teoria e della tecnica alla clinica, all’hic et nunc del materiale delle sedute.
I bambini in genere accolgono favorevolmente l’opportunità di stare in gruppo, e nella quotidianità fanno esperienza di diversi gruppi, da quelli delle feste di compleanno a quelli variamente strutturati  per obiettivi ricreativi, sportivi, educativi.
Nei gruppi di cui si parla nel libro si potrebbe dire che, per chi ne è parte, l’obiettivo è il gruppo stesso: farlo vivere, permetterne il processo, e attraverso di esso facilitare l’emergenza e l’utilizzazione delle  risorse evolutive nei suoi membri.
L’esperienza ci porta ad avere fiducia che il gruppo a conduzione analitica possa essere un’ottima risorsa a questo scopo, ma per quali percorsi ci si arrivi è materia piuttosto complessa.
Gli autori di questo libro ci mettono in contatto con la vitalità del processo gruppale. Loro, i conduttori-narratori offrono lo sguardo, l’ascolto, la mente al gruppo, inteso come la totalità di ciò che vi avviene in quel momento, e ce ne offrono la narrazione. Attraverso il loro racconto possiamo vedere come nei gruppi di bambini non sia permesso in nessun momento dimenticare la corporeità, intesa come tutto ciò che cade sotto i nostri sensi in quell’attimo. Il gruppo e la stanza del gruppo sono la rappresentazione concreta della contiguità dell’ambiente fisico e di quello psichico. Tutto è essenziale allo stesso modo e la possibilità di trasformare questo passa attraverso quello. Nella descrizione del gruppo di Ronny Jaffé  è la stanza del terrore che diventa la stanza del gioco.
Il piccolo gruppo a conduzione unica ci interroga sulla funzione dell’adulto,  essenziale, perché senza di lui il gruppo non potrebbe esistere, ma in una certa misura  invisibile: occhio che contiene, mente che dà un senso. Non è un compito semplice, perché nel gruppo si funziona a contatto con i livelli più precoci del funzionamento mentale.  Si pensano e si fanno cose di cui solo dopo, lavorandoci, possiamo vedere il senso nel processo gruppale.
Proprio l’urgenza di capire di più i livelli primari di funzionamento mentale che sentiamo profondamente attivi nei gruppi di bambini ci apre al collegamento con altri vertici osservativi, altre esperienze relazionali descritte nel libro.
E il pensiero che nasce sulle diverse esperienze narrate ci porta continuamente ad approfondire nuovi modi di considerare quelle che erano viste come dicotomie e che ora non possono più essere considerate tali: cognizione-affetto, psichico-biologico, e naturalmente individuale-gruppale-duale.
Particolarmente stimolante a questo proposito il contributo di Carla Busato Barbaglio, che, partendo dal sentimento controtrasferale di impotenza vissuto dal terapeuta  con certi adolescenti che sembrano disinteressati alla vita, riflette  sul pre-relazionale, sul duale su cui il relazionale si fonda: solo nell’intimità del rapporto con la madre quando è ancora nel suo grembo, e poi nei primi mesi di vita, il bambino può sviluppare quello che i neuroscienziati chiamano “meccanismo appetitivo” presente come possibilità fin dalla nascita, meccanismo che permette di provare il piacere dell’iniziativa nella relazione. Nell’adolescenza, intesa come periodo di auto(ri)concepimento, è importante che il terapeuta comprenda quando queste basi appetitive sono troppo fragili, e cerchi di entrare in contatto con il paziente sostenendo il rafforzamento di queste basi, per aiutare lo sviluppo positivo della relazione.
Anche il gruppo di bambini in certi momenti mi fa pensare alla possibilità di ritrovare e di godere di primitive modalità relazionali in una sorta di riconcepimento nel gruppo-madre. Soprattutto nelle prime fasi, in cui si sperimenta un clima di eccitazione che sembra senza scopo e senza contenuto; momenti di con-fusione in cui l’io, il tu, il noi si fondono allegramente. Forse in quei momenti è possibile vivere un’intimità del piacere di essere con gli altri, che sono un po’ anche “me”, ed è possibile che, insieme, unità di corpi e menti, ci sentiamo più “sollecitati alla vita”.  Mi accorgo che in questa formulazione il conduttore è sentito tutt’uno col gruppo. In realtà la situazione è molto più complessa. Potrei dire così: in quei momenti si è anche tutt’uno col gruppo, e il gruppo è il co-conduttore a cui anche il conduttore si affida per tenere la rotta. Ma il conduttore, a differenza dei bambini, ha (forse) la possibilità di comprendere e comunicare, di dare un senso positivo a questi movimenti.
Particolarmente fecondo e importante per l’insight nei livelli più precoci del funzionamento mentale il contributo di Tonia Cancrini, che, entrando nel vivo dell’analisi di bambini, osserva come la funzione della madre sia quella di accudire affettivamente il corpo e insieme di contenere e far crescere i pensieri. Nella sua esperienza il contenimento della mente dell’analista nella seduta permette il recupero e la comprensione di esperienze traumatiche molto precoci rimaste nella memoria implicita e non elaborate dal bambino, per il venir meno della funzione materna.
Questa funzione che è della madre fin dal momento del concepimento, e che l’analista è chiamato a riprendere nella relazione che vorrei definire intima con il piccolo paziente, il conduttore del gruppo di bambini la adempie nei confronti del corpo gruppale: ne accudisce e contiene gli affetti e i pensieri, offre una possibilità di mettere in parola e dare significato ai contenuti mentali emergenti.
In particolare in alcuni dei lavori contenuti in questo libro (Lombardozzi, Jaffé) si sente fortemente presente questa figura; in ascolto nei confronti del gruppo,  narratore-interprete nei confronti del lettore. A volte si vorrebbe capire di più sul coinvolgimento del conduttore nelle diverse fasi del gruppo, sul dialogo emotivo tra il gruppo e il conduttore. Nei gruppi di bambini si scopre a proprie spese che calarsi nel gruppo vuol dire non solo tollerare il caos primordiale, mantenendo la fiducia che insieme si arrivi a un cosmos comprensibile, ma anche condividere con i bambini i vissuti dolorosi di impotenza del pensiero, di  indebolimento del nostro strumento principale di elaborazione e di comunicazione, trascinati in una mancanza di senso che disorienta. A volte invece ci si sente quasi accuditi dal gruppo, che sembra lavorare benissimo per forza propria.
In certi momenti restare adulto senza cedere alla tentazione di riprendersi il potere sul gruppo non è facile, in altri ci sembra di poter sostare in una situazione di tranquilli spettatori e ci si ritrova l’istante dopo in un caos di protesta.
Non manca nel libro, come per esempio nel lavoro di Maria Luisa Mondello, l’attenzione ai genitori, all’importanza di aiutarli a ritrovare col proprio figlio una comunicazione autentica, spesso resa dolorosamente difficile dalla patologia che fa sentire il figlio un estraneo. Nel corso di questi anni mi sembra di assistere ad una sempre più evidente difficoltà dei genitori a riconoscere nel bambino la diversità dall’adulto, ma soprattutto la sua  mobilità e le sue potenzialità di cambiamento. Credo ci sia un enorme lavoro da fare per capire fino in fondo le difficoltà genitoriali in modo da mettere i genitori in grado di crescere insieme ai loro figli.