Migrazioni

Gruppo e Migrazioni. Presentazione.

Abstract

Nell’introduzione vengono individuati alcuni temi centrali relativi all’ottica di analisi dei processi di immigrazione e di scambio culturale secondo parametri psicoanalitici, o più in generale psicologici, ed antropologici. Viene, inoltre, ricercata una chiave di lettura sufficientemente ampia, proponendo punti di connessione e di divergenza tra i diversi saggi presenti nel numero, mettendo a fuoco, nel modo più circostanziato possibile, il tema di fondo del numero.

Questo numero di Funzione Gamma raccoglie alcuni contributi che, da diverse prospettive, intendono affrontare il tema ampio, complesso e poliedrico della relazione di incontro-scontro con la diversità culturale. Questa si configura oggi principalmente nella dinamica della relazione tra l’immigrato ed il paese ospitante, soprattutto data l’accentuazione dei flussi di immigrazione-emigrazione dovuti ai processi attuali di globalizzazione. Il tema generale è ben trattato nel saggio di Lorenzo d’Orsi

 che delinea i problemi posti dalle recenti vicende legate alle politiche sociali sull’immigrazione approfondendo, inoltre, le mentalità antropologiche che sottendono a forme di emarginazione e di razzismo, che rendono problematico l’incontro con l’alterità culturale. E’ preziosa la sua proposta che consente di riportare l’analisi culturale all’interno di un maggiore equilibrio tra relativismo ed univeralismo. L’aspetto, però, che intendo sottolineare è il riferimento al rischio di restare chiusi in visioni rigide all’interno del pregiudizio, come avviene nella metafora dei pesci rossi nella vasca, che sono costretti ad aderire ad una visione del mondo unilaterale. Questo ci introduce alla possibilità, al contrario, di uscire dalla vasca, di fronteggiare il ‘pregiudizio’ non negandolo, il che condurrebbe ad altrettante conseguenze negative, semmai superarlo con rovesciamenti proficui dei punti di vista e riconfigurazioni degli assetti individuali, di gruppo e sociali, nella considerazione della diversità culturale. Questo tema ci immerge immediatamente nelle dinamiche di gruppo e nel vertice psicoanalitico, se pensiamo alla potenzialità del gruppo quando si costituisce come spazio ‘ectopico’, nella sua qualità di spostamento della prospettiva attraverso l’ampliamento dell’area simbolica e creativa (Siracusano, 1986). Allo stesso tempo ci riporta alla dimensione aporetica della psicoanalisi che Francesco Corrao (1985) ha individuato come uno spazio potenziale di una conoscenza, che si scarta dalla ordinarietà, per ricostituire nuovi contesti emotivi e cognitivi. In ultima analisi risulta evidente l’importanza di una più autentica conoscenza dell’alterità degli immigrati.

Il contributo di Virginia De Micco entra più direttamente nel tema della sofferenza identitaria dell’immigrato, proponendo una riflessione profonda e puntuale attraverso una ricerca su bambini di diverse provenienze presso un centro di accoglienza. L’autrice chiarisce che si basa su un materiale che non è strettamente clinico, ma nasce dalla realizzazione di interviste proposte con un’attenzione ed un ascolto psicoanalitico. Veniamo accompagnati nell’esperienza difficile e dolorosa, da parte dei bambini, di gestire i sentimenti e le emozioni connesse ad una doppia appartenenza: quella ‘originaria’ e quella della cultura ospitante. Questo ha significato poter entrare in contatto con i complessi processi di riorganizzazione conscia e inconscia delle memorie traumatiche e dei traumi cumulativi, dovuti a modelli relazionali familiari, che devono confrontarsi con l’acquisizione di nuovi valori e comportamenti. La compresenza nell’autrice della competenza di psicoanalista con la formazione etnopsichiatrica poggia su un solido terreno di antropologia psicoanalitica, nel senso più ‘pieno’ del termine. Penso che l’autrice si riferisca ad una concezione antropologica dell’uomo, dei fattori sociali e culturali che gli appartengono, che acquista una maggiore consistenza e ragion d’essere, se vista in relazione ai dinamismi psichici che la psicoanalisi ha indagato e approfondito. La psicoanalisi, nata come scienza dello sradicamento e della diaspora, sembra fornire gli strumenti più validi per la conoscenza profonda delle psicopatologie dell’immigrazione e per l’intervento ‘terapeutico’, soprattutto quando, come è il caso del contributo dell’autrice, ci si confronta con la complessitàculturale a cui le nuove tendenze dell’antropologia ci introducono.

Lo sradicamento come esperienza originaria soggettiva è lo spunto a cui si ispira Marie Rose Moro quando racconta, nel suo contributo, la sua vicenda personale di persona che ha dovuto ‘emigrare’ e riflette sul peso di questa esperienza nella scelta di occuparsi, passando attraverso la medicina e la filosofia, di etnopsichiatria nel solco della tradizione iniziata da George Devereux (1972) e ripresa da Tobie Nathan (1986) in Francia. L’autrice ripropone la prospettiva di analisi complementarista, tra psiche ‘individuale’ e inconscio ‘culturale’, come discorsi isomorfi che si incontrano dinamicamente, riprendendo in questo l’idea di base di Devereux e dà molto risalto alla funzione del gruppo nel modello terapeutico di Nathan. Si riferisce, di conseguenza, al lavoro del gruppo di terapeuti di provenienza culturale ‘mista’, che si prende cura di qualcuno, un individuo o un intero gruppo familiare, che esprime un disagio in cui il carattere ‘etnico’ è preponderante. Diviene preminente, in questo contesto, il problema della lingua, della ‘traduzione’ di significati, che possono divenire condivisi attraverso sistemi di mediazione simbolica. La Moro sembra anche sottolineare maggiormente, rispetto ai suoi referenti di base, l’importanza di cogliere la molteplicità e la ricchezza dei meticciamenti culturali, come garanzia necessaria per non cadere nel rischio di un eccesso di culturalismo. Gli esempi di racconto dei suoi ‘interventi-incontri’ umanitari in Afganistan, anch’essi caratterizzati da un ascolto psicoanalitico attivo, sembrano dar corpo ad un dialogo accorto e autentico con l’alterità e la sofferenza nelle situazioni di crisi radicale.

E interessante il confronto con la proposta di Virginia De Micco. Marie Rose Moro privilegia, infatti, lo sguardo alla dimensione di gruppo come momento in cui possono entrare in risonanza l’inconscio individuale e l’inconscio etnico, operando una riconfigurazione dei sistemi di significato. Virginia De Micco è più attenta, invece, alla dimensione psicoanalitica del ‘gruppo interno’ come in sé ‘culturale’, espressione di assetti soggettivi e al contempo sociali, che diviene un’area ‘transizionale’, nel senso winnicottiano del termine, di transito dei profondi vissuti transgenerazionali, che necessariamente intervengono nella ridefinizione dei processi identitari, conseguenti all’esperienze traumatiche dell’immigrazione-emigrazione.

Avvicinerei poi due interventi nel numero che, se pur diversi come impianto teorico e impostazione, ricercano un analogo confronto tra modelli: il modello gruppoanalitico e quello complementarista in etnopsichiatria, da parte di Angela Caselli, quello musicoterapeutico e l’etnomusicologia nella riflessione di Daniela Altavilla.

Nel suo lavoro rigoroso e puntuale Angela Caselli riprende le teorie etnopsichiatriche sulla scia di Deverux-Nathan-Moro e le fa dialogare con il modello foulksiano di gruppoanalisi, individuando nel lavoro terapeutico associativo con il gruppo mediano, il luogo privilegiato della ricerca dei significati culturali e di una loro condivisione-trasformazione. L’autrice sembra voler cercare una sintesi che costituisca un modello di intervento che contiene aspetti strutturanti il contesto gruppale: il transpersonale, l’istituzionale, il biologico, l’antropologico, il sociocomunicativo. Individua, inoltre, le potenzialità del rispecchiamento nel gruppo, l’accoglimento degli aspetti transgenerazionali, la dimensione della koinonia guppale (nel senso allargato di De Mare), come elementi fondamentali per un’apertura antropologica.

Daniela Altavilla nel suo lavoro fa un interessante confronto tra la musicoterapia e l’etnomusicologia. Pur evidenziando le differenze tra i due approcci sottolinea soprattutto l’importanza, per chi si occupa di musicoterapia, di volgere lo sguardo alla complessità culturale dei contesti terapeutici relativi ad altri contesti culturali, con una particolare attenzione ai rituali coreutici-musicali, legati ai culti di possessione in area africana. Ci muoviamo qui in un ambito diverso dalla psicopatologia dell’immigrazione, ma che è comunque utile per confrontarsi con forme diverse di intervento terapeutico e di guarigione e con concezioni diverse della malattia e della medicina. L’autrice si muove in un terreno che ha avuto importanti approfondimenti a partire dall’opera di Ernesto de Martino (1961) e di Vittorio Lanternari (1998).

Con i contributi di Ambra Cusin e di Gerace- Amorfini si entra più direttamente in uno spazio di intervento clinico di gruppo con immigrati. Ambra Cusin fa un’analisi molto approfondita della condizione di spaesamento e sradicamento di immigrati esiliati per motivi politici, con cui ha lavorato come conduttrice in un’esperienza di gruppo. L’autrice si riferisce in modo puntuale ad importanti presupposti psicoanalitici, a partire dalle considerazioni freudiane sulla memoria, fino alle ricerche sulla funzione della lingua e le sue varie connotazioni, affrontate nel noto volume a cura di Amati Mehler, Argentieri e Canestri (1990). E’ necessario, per dare spazio alla Babele dell’inconscio, consentirsi una disposizione alla scoperta dell’altro con una condizione di ‘umiltà’ e di ascolto, ma anche mettendo in campo i propri schemi interpretativi. Questo si evince dal lavoro di gruppo dell’autrice, che sembra dare preminenza al contatto emotivo ed allo scambio dialogico e ad una situazione di reciproco apprendimento tra gli esiliati-immigrati, che hanno fruito dell’esperienza di gruppo, e la conduttrice stessa. Viene valorizzata la dimensione psicoanalitica che diviene, se considerata nei suoi aspetti di apertura all’alterità e nella sua propensione ad un’analisi dell’inconscio come terreno di confronto con diverse ‘forme di umanità’, un’elemento o funzione facilitante l’incontro interculturale e le trasformazioni intersoggettive che comporta. La Cusin evidenzia anche, con sensibilità, l’importante funzione della condivisione gruppale per consentire di mettere in parole le emozioni e riconfigurare i processi narrativi e di memoria, affrontando gli aspetti più difficili del cambiamento culturale.

Il saggio Di Gerace-Amofini si muove in una dimensione diversa dal modello sia di Nathan-Moro, sia da quello del gruppo mediano. Le autrici raccontano un’esperienza di un gruppo terapeutico di pazienti, sofferenti di varie psicopatologie, nel quale viene inserita un’immigrata del sud-est asiatico. In un certo senso fanno entrare nel gruppo un elemento di etereogeneità culturale che, in un primo momento, pone qualche problema, ma che diviene nel tempo, anche se con oscillazioni, un fattore di arricchimento molto significativo. Il lavoro del gruppo è molto denso emotivamente e ha permesso alla paziente di poter elaborare i suoi lutti: quelli legati alla sua vita familiare e quelli attinenti, invece, al modello di vita culturale che ha abbandonato. Il gruppo diviene il luogo in cui viene rappresentato, in un’espressione molto sentita, il dolore mentale dello sradicamento e della perdita, entrando in risonanza con un fattore comune, che altrimenti non avrebbe trovato altra forma per manifestarsi se non sul versante della sofferenza somatica. L’uso dei sogni è fondamentale perché consente la messa in scena di narrazioni personali, nella forma di un mito condiviso nel gruppo, e, di conseguenza, l’elaborazione dei sentimenti di nostalgia e dei vissuti catastrofici dovuti alle rotture dell’identità. Il contesto teorico a cui attingono le autrici fa riferimento ai concetti di commuting e di narrazione efficace che Claudio Neri (1995) ha approndito in più occasioni. Mi sembra anche importante, nel caso della presenza di uno straniero immigrato, sottolineare la delicatezza di una ricerca di equilibrio tra la funzione di omogeneità (Marinelli, 2008) e il processo del gruppo verso dimensioni eterogenee, che accolgano nella sua pienezza la diversità culturale.

E’ significativo, a questo riguardo, il lavoro presentato da diversi category (Angelo Silvestri, Lorenita Colombani, Marjorie Crivelli, Emilia Ferruzza) che, ispirandosi ad un fatto di cronaca avvenuto in una scuola di Padova, evidenzia le dinamiche gruppali, che conducono ad un sentimento di rifiuto dello straniero. Risulta evidente, dalla trattazione ampia ed accurata, che il conflitto etnico si inserisce in un contesto che si prestava, già in origine, ad accentuarne i tratti, a causa di una debolezza strutturale dell’istituzione socio-culturale, che predisponeva alla costruzione di barriere e confini rigidi nel rapporto con lo ‘straniero’. L’esito è il manifestarsi di quel tipo di dinamica, caratterizzata da massicci meccanismi di scissione e proiezione, che Giuseppe Di Chiara ha definito sindrome psicosociale (Di Chiara, 1999). L’analisi degli category, che procede su livelli paralleli, consente di assimilare la dinamica di un piccolo gruppo a una dimensione sociale più allargata. In un’esperienza di gruppo, ispirata al modello foulksiano, e, analogamente, nella dimensione sociale di un istituto scolastico, l’emergere di sentimenti che rafforzano eccessivamente forme identitarie specifiche, comporta il differenziarsi netto di un ‘noi’ da un ‘loro’, che è vissuto nella sua estraneità persecutoriamente.

Una prospettiva diversa è proposta da Francesco Fanoli nella sua riflessione su una ricerca antropologica, basata su una lunga intervista a un artista senegalese residente a Roma. L’autore mette in luce l’importanza della storia di vita e della relazione intersoggettiva nello scambio tra il ricercatore e il soggetto protagonista della ricerca. La narrazione diviene una forma di risignificazione condivisa dell’esperienza culturale e psicologica di un soggetto individuale che, però, attraverso la ricostruzione delle genealogie connesse ai costumi locali attinenti a un determinato contesto storico e mitologico, fa emergere la dimensione allargata della tradizione di un gruppo. Lo scambio dialogico consente un’analisi accurata delle trasformazioni che riguardano l’esperienza individuale e gruppale, in questo caso in relazione con i cambiamenti nella storia culturale del gruppo. Una raffinata analisi epistemologica costituisce un ottimo terreno per una riflessione sul cambiamento culturale, ricostruendone le ragioni storiche collegate al colonialismo europeo in Africa e collocandolo nella contemporaneità dei processi migratori e di globalizzazione. Viene da pensare che il contatto con l’altro, nella forma dello scambio dialogico, consente di cogliere, insieme al sentimento dell’estraneità, anche quegli elementi di comunanza che lo rendono familiare e non nemico.

Il contributo di Kakar si distingue dagli altri per il campo di analisi che affronta, che non ha una diretta relazione con il problema dell’immigrazione. La sua riflessione attiene, però, ad un tema pertinente la natura delle relazioni interculturali. Kakar, psicoanalista indiano, con una spiccata sensibilà antropologica, approfondisce il tema scottante delle violenze tra indù e musulmani in India. In particolare si concentra su quelle che si sono verificate negli anni novanta in occasione dall’abbattimento di una moschea in una zona a maggioranza mussulmana. Kakar analizza con acume il contesto storico, economico e psicologico, ampiamente condizionato dal colonialismo britannico, nel definirsi dei processi di riconoscimento identitari, che in quelle circostanze hanno condotto ad un asprimento tra le forme culturali e religiose indù e quelle mussulmane. Quando le alterità culturali, quelle che coesistono per tanti versi anche attraverso relazioni di reciproca tolleranza, vengono vissute come compromettenti l’esistenza stessa in termini culturali, religiosi, di sussistenza economica e psichica del gruppo, scattano dinamiche che conducono ad individuare nell’altro gruppo un rivale pericoloso. Si entra, allora nel tempo di Kali, il tempo della violenza che si configura, se ci riferiamo al modello proposto da Giuseppe Di Chiara delle sindromi psicosociali (1999), nella forte e massiccia propensione a proiettare nel gruppo contiguo le parti denegate e scisse del sé, considerandolo e trattandolo come un nemico da combattere. In termini bioniani si potrebbe pensare ad una configurazione ‘allargata’ di un gruppo in assunto di base di attacco-fuga, che genera una corrispondente cultura di gruppo (Bion, 1971), che vede nella violenza una soluzione alle angosce catastrofiche si sopravvivenza.

Nel suo studio Kakar propone un approccio nel quale lo strumento interpretativo psicoanalitico entra, nell’analisi delle dinamiche psichiche consce e inconsce, in un modo più morbido ed allo stesso tempo più efficace. Come aveva in precedenza sostenuto nelle sue analisi sulle psicoterapie tradizionali indiane, è possibile considerare il fatto che le mitologie condivise nel gruppo e nella collettività e le forme dei desideri inconsci individuali interagiscono in una complessa e plastica molteplicità. Questa prospettiva consente di poter garantire un maggiore spazio ed un più ampio respiro all’evidenza ed alla significatività dei diversi contesti e attribuire un valore preminente alla compresenza di parametri culturali-antropologici e psicodinamici (Kakar, 1982).

Quest’ottica, che in forma diversa ritroviamo nei contributi a questo numero, ci può aiutare ad affrontare, in modo più adeguato, temi complessi e difficili come quello delle relazioni inerculturali e delle dinamiche relative ai processi di immigrazione-emigrazione. Forse possiamo poter ripensare al fatto che, se è vero che, come abbiamo già detto, è fondamentale considerare la grande diversità dei contesti culturali, dobbiamo anche riguadagnare un senso condiviso e comune. E’ sempre valido l’insegnamento, nel campo psicoanalitico, dei Grinberg, che mettono in luce quanto il senso di sradicamento e i sentimenti connessi al cambiamento catastrofico nei processi di emigrazione e nell’esilio, siano l’espressione, oltre che dell’esperienza storica della diaspora dei gruppi, anche di vissuti individuali che assimilano i passaggi di crescita, i lutti e le perdite personali ad un’esperienza migratoria (Grinberg, Grinberg, 1990, Lombardozzi, 2006). La vita stessa, per ognuno di noi, è un susseguirsi di migrazioni. Inoltre è utile sottolineare, sempre con i Grinberg, il fatto che il rapporto tra migranti e paesi ospitanti ha le caratteristiche di un incontro-scontro che non lesina sofferenze e dolore, spaesamento e conflitti identitari a tutti i soggetti protagonisti coinvolti, ovviamente di segno e misura diversi. L’irruzione dell’alterità culturale è sempre un elemento di grande arricchimento e, allo stesso tempo, di disorganizzazione.

L’antropologia culturale contemporanea ci insegna infatti, senza negare l’asprezza dei conflitti culturali e religiosi, ad apprezzare la ricchezza delle forme di meticciato nello scambio culturale globale. L’antropologia fisica e la genetica delle popolazioni oggi forniscono ampie e circostanziate conferme all’ipotesi che la nostra specie Homo Sapiens ha una storia evolutiva caratterizzata da continui spostamenti e migrazioni nello spazio geografico e da processi di ibridazione sul piano genetico mentre, al contrario, disconferma la sostenibilità biologica del concetto di razza (Cavalli Sforza, Menozzi, Piazza, 1994, Lombardozzi, 2006).

Dobbiamo anche riflettere sul fatto che anche nel futuro, come auspicato dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama per la realizzazione nel 2030 della missione spaziale su Marte, si prefigura per l’uomo un’ulteriore grande emigrazione. L’antropologo Marc Augé ci invita a tenere conto dei nuovi possibili scenari con queste parole che propongo a conclusione di questa mia presentazione: “Noi viviamo, senza avere abbastanza coraggio per rendercene conto, in un periodo di transizione al termine del quale la Terra sarà solo il punto di riferimento e di partenza. L’esplorazione dello spazio è appena agli inizi, ma l’evoluzione politica e scientifica del pianeta è già profondamente orientata a questa prospettiva” (Augé, 2008).

Bibliografia

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Bion, W.R. (1961). Esperienze nei gruppi. Roma: Armando, 1971

Cavalli Sforza, L.L., Menozzi, P., Piazza, A. (1994). Storia e geografia dei geni umani. Milano: Adelphi, 1997

Corrao, F. (1985). La dimensione aporetica della psicoanalisi. In Orme vol. 1. Milano: Cortina, 1998

De Martino, E. (1961). La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud. Milano: Il Saggiatore, 1961

Devereux, G. (1972). Saggi di etnopsicoanalisi complementari sta. Milano: Bompiani, 1975

Di Chiara, G. Sindromi psicosociali. La psicoanalisi e le patologie sociali. Milano: Cortina, 1999

Grinberg, L., Grinberg, R. (1990). Psicoanalisi dell’emigrazione e dell’esilio. Milano: Franco Angeli

Kakar, S. (1982). Sciamani mistici e dottori. Parma: Pratiche editrice, 1993

Lanternari, V. (1998). Medicina, Magia, Religione, Valori, Vol. 2 Dall’antropologia all’etnopsichiatria. Napoli: Liguori, 1998

Lombardozzi, A. (2006). Figure del dialogo, tra antropologia e psicoanalisi. Roma: Borla, 2006

Marinelli, S. Contributi alla psicoanalisi di gruppo. Roma: Borla, 2008

Nathan, T. (1986). La follia degli altri, Saggi di etnopsichiatria. Firenze: Ponte alle Grazie, 1990

Neri, C. Gruppo. Roma: Borla, 2004

Siracusano, F. (1986). L’esistenza ectopica del gruppo. Gruppo e Funzione Analitica, VII (1).