Il gruppo come cura
Questa recensione di Daniela De Filippis è già stata pubblicata sul sito dell’Associazione Gradiva
“Il gruppo è un altro molto speciale”
C.Neri, Il gruppo come cura. Raffaello Cortina Editore, 2021
Il gruppo come cura, il gruppo quando cura è un cibo nutriente, appagante, un bell’incontro, un abito che calza bene indosso, a dispetto di qualsiasi misura.
Allora, sazi, sentiamo il desiderio e la curiosità di creare rapporti, costruire sensi, nutrire legami. Il desiderio di Stare in gruppo.
C’è da chiedersi dove Claudio Neri nel suo libro Il Gruppo Come Cura, abbia nascosto la tortura che incalza, il dolore e l’angoscia, il brutale e il terrifico. “Ecco come sono le parole, nascondono molto, si uniscono pian piano fra di loro, sembra non sappiano dove vogliono andare, e all’improvviso, per via di due o tre, o di quattro che all’improvviso escono, parole semplici, un pronome personale, un avverbio, un verbo, un aggettivo, ecco lì che ci ritroviamo la commozioneche sale irresistibilmente alla superficie della pelle e degli occhi, che incrina la compostezza dei sentimenti, a volte sono i nervi a non riuscire a reggere, sopportano molto, sopportano tutto, come se indossassero un’armatura, si dice.”
Lo stile narrativo dell’autore, al pari dello stile interpretativo, si presenta come testimonianza di una pluriennale esperienza nell’ambito della conduzione di gruppi a finalità analitica, gruppi che curano quindi, con parole responsabilidella cura dei pazienti. Le parole esigono una presa di responsabilità, e Claudio Neri le misura, non eccede e non toglie, non usa artifici teorici, le sue parole nel testo e nelle vicende cliniche scorrono in una “buona socialità” capaci di occuparsi, senza destare preoccupazione, degli aspetti di caducità, instabilità e fuggevolezza che rendono umani, o che tolgono umanità nelle storie più dolorose, portandoci al centro del senso. Con spontaneità ma mai dimentico dell’effetto che hanno sull’interlocutore.
Parallelamente alla lettura de Il gruppo come cura, accade che sia accompagnata negli stessi giorni anche dalla lettura del romanzo Cecità di Josè Saramago. Mi colpisce la necessità di rimandi e parallelismi, l’urgenza di rappresentare e bonificare i contenuti dell’uno con le parole dell’altro. Come se l’uno si presentasse come una fotografia e l’altro come il suo negativo.
In un tempo qualunque, in un luogo qualunque, il romanzo di Saramago narra un’improvvisa cecità che si diffonde a macchia d’olio, un mal bianco di cui inizia progressivamente a soffrire l’intera popolazione, un “mare di latte” che invade il campo visivo e impedisce la visione, con la conseguente perdita di ogni riferimento spazio-temporale.
Esseri umani di ogni età, rinchiusi in un primo tempo dentro a un manicomio ormai in disuso, riadattato al solo scopo di separare i sani dai contagiati, si muovono a tentoni in grandi camere e infiniti corridoi che come serpenti compongono uno spazio vuoto di tutto, dove la vita è ridotta alle sue esalazioni. Non c’è traccia di democrazia, il Governo è decisore unico. La speranza sembra non riuscire ad allocarsi.
Non troverà il lettore neanche un codice in termini di punteggiatura, né nomi propri a descrivere personaggi che sono invece maschere eterne.
Ma c’è chi ancora vede bene, in quel mondo di occhi spenti, ed è una donna, che diventa guida e capopopolo di un gruppetto di persone che alla fine diventeranno famiglia, che si assume la responsabilità del gruppo, pur rischiando continuamente lei stessa il contagio. Con dedizione, delicatezza e fermezza, essa è custode della sofferenza, non la nega, la attraversa ma come una madre accogliente bonifica e restituisce al suo gruppo la possibilità di vedere altrove.
Il gruppo come cura, restituisce la punteggiatura a discorsi inenarrabili, ridona nomi a volti e ci fa vivere un viaggio che accompagna il gruppo senza mai dimenticare il nome di chi lo compone, lasciando trasparire la connotazione affettiva e la spontaneità del conduttore, nonché la sua estrema fiducia nel dispositivo del gruppo analitico, con la solidità di un modello teorico che non è solo strumento di indagine ma una sonda che illumina, pur consapevole di doversi talvolta “accecare per poter dirigere tutta la luce su un punto oscuro”.
Citando l’autore, perché un gruppo possa curare, il conduttore o qualcuno dei partecipanti a un gruppo analitico deve aver fatto un’analisi, portando nel gruppo “idee, valori e funzioni che hanno l’effetto di trasformare quel gruppo in un gruppo analitico”, deve poter vedere, apprendere a vedere, o ad accecarsi laddove necessario.
Con l’appagamento e “le budella in pace possiamo allora avere delle idee, discutere se esista per esempio un rapporto tra gli occhi e i sentimenti o se il senso di responsabilità sia la naturale conseguenza di una buona visione”.
Bibliografia
Saramago J. (1995), Cecità, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2010.
Freud S. (1873-1939), Lettera a Lou Andreas Salomè, in Lettere, Bollati Boringhieri, 1990.