La relazione violenta. L’identificazione con l’aggressore

Buongiorno, grazie per l’invito.

PREMESSE: UNA RETE DA COSTRUIRE E MANTENERE

Se le statistiche italiane evidenziano che il numero totale degli omicidi commessi nel nostro paese scende, mentre resta fissa la quota dei femminicidi, la  violenza degli uomini sulle donne deve essere letta   come un fenomeno complesso e strutturale e non come un’emergenza  improvvisa.

Sappiamo bene che il problema delle risorse, per affrontare situazioni di questo tipo, diventa fondamentale.

Porto, a questo proposito, la mia esperienza all’interno del territorio novarese.

Svolgo una parte della mia attività come psicologa psicoterapeuta ad orientamento psicodinamico- psicoanalitico presso la Struttura di Psicologia Clinica della Azienda ospedaliera-universitaria  Maggiore della Carità  che opera anche all’interno della Rete contro la Violenza di Genere, coordinata dalla Provincia di Novara.

La Provincia, che ha istituito da molto tempo un Centro Servizi per le Pari Opportunità, da qualche anno svolge un ruolo di coordinamento  delle risorse presenti sul territorio, siano Enti, Istituzioni, Forze dell’Ordine, Magistratura, Questura, Prefettura, Comuni, Consorzi, ASL, ASO, Ordini professionali, Associazioni, oltre che un collegamento con i mass media.

In analogia con  i nuovi indirizzi che studiano le energie specifiche, utilizzabili e rinnovabili in una determinata zona,  la  Provincia si è posta così sul territorio novarese come un vero e proprio “ricercatore di fonti energetiche” , alternative, specifiche e utilizzabili.

Coordina  incontri periodici con i rappresentanti dei vari enti ed istituzioni sopra menzionatial fine di costruire e implementare la Rete contro la Violenza di Genere, oltre che programmarne una costante “manutenzione” attraverso la condivisione di uno stesso linguaggio. Organizza corsi e seminari di formazione su queste tematiche favorendo   una maggior conoscenza fra gli operatori presenti sul territorio, e, di conseguenza, anche il crearsi di una rete informale.

Come purtroppo tutti sappiamo infatti, al momento attuale, spesso problematiche così delicate e complesse vengono fronteggiate, in parte, ma in una parte consistente, attraverso il finanziamento di progetti di breve durata ( da sei mesi a due anni) e proprio questo rappresenta un fattore assai critico:  il troppo repentino ricambio di operatori,  l’ apparizione e la scomparsa  di  progetti, la scarsa sinergia tra servizi sono tutti fattori che  non favoriscono la stabilità, la solidità e la resistenza della Rete.

Un coordinamento diventa fondamentale.

Descrivo per sommi capi anche le funzioni della Struttura di Psicologia Clinica che costituisce un punto della Rete.

Tale Servizio collabora con i reparti ospedalieri di degenza e DH, con il Pronto Soccorso, ed ha attivato anche un ambulatorio rivolto ai pazienti esterni, per consultazioni psicodiagnostiche, sostegno psicologico e psicoterapia, individuale e di gruppo.

La collaborazione con il Centro Servizi della Provincia, iniziata in passato in modo episodico, si è trasformata nel tempo in qualcosa di più strutturato: una collaborazione fattiva e bidirezionale non soltanto nell’ambito della formazione.

Da una parte la Psicologia Clinica nei primi colloqui effettuati con donne si è trovata a volte a intercettare, dietro indefiniti sintomi di tipo ansioso-depressivo, o dietro problematiche psicosomatiche o talvolta disturbi alimentari, esperienze di

maltrattamenti e violenze domestiche, nelle loro molteplici componenti, fisiche ma spesso psicologiche, sessuali ed economiche: esperienze raccontate a mezza voce, con vergogna, a volte affermate e poi negate, o minimizzate, esperienze spesso raccontate sorprendentemente senza nessun legame apparente con i sintomi che avevano portato queste donne alla consultazione.

E’ stato utile indirizzare alcune di queste donne al Centro della Provincia, o ad altri punti della rete ( Forze dell’Ordine, Avvocati, Assistenti Sociali), dopo una prima analisi dei bisogni, per una presa in carico globale della situazione.

Dall’altro lato il Centro Servizi della Provincia ha indirizzato alla Struttura di Psicologia Clinica alcune donne vittime di maltrattamenti domestici con la richiesta di un sostegno psicologico, intervento che andava ad affiancarsi ad altri tipi di interventi: sociali, legali ecc.

Come ben sappiamo infatti spesso noi troviamo in queste persone forti ambivalenze,  un denunciare per esempio il maltrattante e poi un ritrattare che rende poco efficace l’ intervento di aiuto.

L’INCONTRO CON LA VIOLENZA

E’ stato più volte sottolineato oggi come incontrare la violenza significhi  in qualche modo aver a che fare con un non-senso, con l’inspiegabile, con aree cieche della personalità, e spesso del gruppo familiare, del contesto di appartenenza:  “scheletri nell’armadio”, segreti di famiglia, non detti.

Occuparsi di chi ha subito violenza e maltrattamenti significa accogliere e raccogliere sentimenti penosi, spesso pieni di vergogna, entrare in contatto con  ferite psichiche talvolta ancor più difficilmente sanabili rispetto a quelle fisiche.

Sono sentimenti che muovono  profonde reazioni emotive di rabbia, impotenza o dolore anche negli operatori.

Come operatori, soprattutto come terapeuti, dobbiamo mantenerci aperti anche all’incontro con la distruttività, pur cercando di proteggerci, per comprendere meglio, se ci sono, le ragioni della violenza, evitando così un pensiero troppo manicheo dove tutto il male sta da una sola parte.

Questo atteggiamento infatti non permetterebbe una reale comprensione della natura del conflitto, e limiterebbe il nostro intervento a forme di contenimento o di repressione che spesso, assolutamente necessarie, rischiano di rivelarsi alla lunga inefficaci se non si tiene conto appunto della complessità del problema e di tutte le sue sfaccettature.

Del resto, a ben vedere, la distruttività non ha ancora uno statuto ben definito nella teoria psicoanalitica, che oscilla tra 2 poli: aggressività come dato pulsionale, e aggressività come  conseguenza di un ambiente frustrante.

Ma è particolarmente interessante quanto Anna Freud spiega del meccanismo di difesa dell’identificazione con l’aggressore.

Se i meccanismi di difesa sono operazioni psichiche messe in atto per ridurre o sopprimere ogni turbamento che mette in pericolo l’equilibrio interno, l’identificazione con l’aggressore è un processo attraverso il quale si sopprime la paura di un aspetto di realtà  assumendo le caratteristiche dell’oggetto temuto.E’ un meccanismo comunissimo che possiamo trovare per esempio nel gioco infantile.
E’ il gioco del dottore nei bambini che devono fronteggiare l’apprensione di una visita medica: far finta d’essere ciò che più spaventa.

Gli studi antropologici hanno fatto riferimento a  tribù  che nel corso di  riti particolari indossano la pelle (proprio fisicamente) del leone, delle fiere che temono di più. “Se io incarno il leone, se io sono come il leone, se io divento il leone,

il leone mi farà meno paura”.
Questo meccanismo può andare dalla semplice inversione dei ruoli (come appunto il gioco del dottore ), ad una vera e propria  introiezione dell’oggetto pericoloso (pensiamo a quanto emerge dalle casistiche degli abusi sessuali per esempio, dove spesso l’abusante  è stato a sua volta un bambino abusato).

E’ una sorta di vendetta causata dalla frustrazione e dal senso di impotenza,

Per non sentirsi deboli, ci si identifica a un sé-marionetta forte e violento, addirittura onnipotente, schiacciando i propri sentimenti di pietà, non preoccupandosi delle conseguenze, perché non c’è identificazione ed empatia con il dolore della vittima.

La violenza può diventare così qualcosa di transgenerazionale, che può manifestarsi in tanti modi.

Alice Miller, nel suo libro La persecuzione del bambino, le radici della violenza, passa in  rassegna i testi pedagogici degli ultimi 2 secoli e alcuni “metodi di persuasione” utilizzati per  piegare  l’impulsività e l’ostinazione infantile costringendo ad una adesione- identificazione al progetto educativo del genitore.

Il bambino, costretto a reprimere la propria aggressività, non saprà da adulto reagire alle ingiustizie sociali e potrà accettare senza opposizioni ad esempio le imposizioni dei regimi totalitari o diventare lui stesso aggressore. La Miller a questo proposito rievoca  proprio le vicende di vita di Hitler.

Ma a volte questo meccanismo di identificazione con l’aggressore non è sufficiente a spiegare alcune dinamiche emotive.

A volte infatti troviamo forti componenti di ambivalenza nelle donne maltrattate che chiedono aiuto. C’è una volontà di denunciare ma anche uno stretto legame con il proprio partner maltrattante.

ESEMPLIFICAZIONI CLINICHE

Porto un paio di esempi.

Una donna, vittima di maltrattamenti, abbandona la casa coniugale e si trasferisce presso l’ abitazione del figlio ormai adulto. Chiede un colloquio psicologico, racconta della pericolosità del marito che dormiva con un’arma sotto il cuscino e spesso gliela puntava alla testa minacciosamente. La signora sente il bisogno di essere sostenuta.

A colloquio terminato, quando la signora è già andata via, arriva il marito, chiede un colloquio, pretende di essere seguito proprio dalla psicologa della moglie.

Come poteva sapere il marito dell’appuntamento della moglie con la psicologa? La donna aveva lasciato i riferimenti sul frigo di casa, da quella casa dalla quale si era allontanata!

La donna a volte chiede aiuto ma poi è come se delegasse in totola responsabilità all’operatore, e mentre da un lato chiede agli altri (psicologi, assistenti sociali, polizia, ecc.) di farsi carico della sua protezione dai maltrattamenti domestici, dall’altro mette in atto un vero e proprio sabotaggio di questo progetto.

Ricordo  una donna che, vittima di maltrattamenti, ha avviato una psicoterapia senza informare il partner di questa sua scelta, poiché considerava la psicoterapia  uno spazio per sé, per poter avviare un percorso di crescita. Diventando sempre più consapevole della propria situazione di vittima, a un certo punto la donna, con un agito abbastanza pericoloso, comunica al marito nome, cognome e indirizzo della propria terapeuta.

Naturalmente prima  riferisce al marito, come se fossero però parole soltanto della terapeuta, tutto quello che voleva dirgli da tempo, scaricando in questo modo sulla terapeuta tutta la responsabilità. “Lei – dice al marito riferendosi alla terapeuta – ha detto che ti devo denunciare e che mi devo separare da te“.

E’ vero che a volte i pazienti in certi momenti della terapia fanno un po’ dire ai terapeuti quel che vogliono sentirsi dire, o che vorrebbero dire, ma in questo caso il fatto è stato molto emblematico: la paziente vuol far crescere un sé più libero in psicoterapia e al contempo lascia nelle mani del marito, picchiatore, questo progetto, mettendolo così  fortemente in pericolo.

Non è soltanto un attacco alla terapeuta: è come se la terapeuta fosse una sua estensione.

Lei mette in mano al marito se stessa e il suo progetto di crescita, oltre che la psicoterapia.

Certamente a questo punto il vissuto della terapeuta cambia, e dalla rabbia nei confronti del marito passa alla rabbia nei confronti della paziente, che non ha saputo difendere l’alleanza terapeutica.

Ma questo diventa, se usato bene, un elemento cruciale che può anche fortificare la relazione terapeutica.

Da quel momento infatti il lavoro terapeutico ha dovuto prendere in considerazione anche la violenza che si nascondeva dentro la donna, affinché la paziente stessa, rendendosene conto, potesse farsene carico e non ‘agirla’ tout-courtcome era successo.

La donna usa la violenza per sentirsi forte, un po’ come nel meccanismo dell’identificazione con l’aggressore, ma innesta una dinamica che le impedisce di crescere veramente nel suo Sé più autentico.

E a questo punto ci viene in aiuto quello che lo psicoanalista ungherese Ferenczi,dice a proposito di un altro aspetto dell’identificazione con l’aggressore.

Ferenczi sottolinea, come,  sentendosi sopraffatta da una minaccia, la vittima elimina la propria soggettività e, per sopravvivere, diventa esattamente come il suo aggressore ha bisogno che diventi.

Sentendosi in pericolo essa si rende trasparente, invisibile come i camaleonti che, per proteggersi si confondono proprio con ciò che li minaccia nel mondo circostante.

Ci sono degli elementi cruciali in gioco: la solitudine traumatica, i vissuti di abbandono e la grande sensibilità nei confronti delle aspettative dell’aggressore, sostenuta dalla affettività, perché molto spesso le donne maltrattate sono innamorate del loro partner.

C’è però un fraintendimento circa i sentimenti di affetto e di amore, in quanto spesso purtroppo si tratta di donne che hanno avuto modelli familiari di sopraffazione e di prepotenza, e quando trovano un uomo che risponde a queste caratteristiche ci sentono subito qualcosa di familiare, un’aria di casa che sospende le loro capacità critiche e le fa affondare nel magma della coazione a ripetere.

In questo tipo di situazioni, ma fortunatamente non tutte sono cosi disperate, avendo acquisito questa grande capacità di ‘sintonizzarsi’ con il proprio aggressore, la donna- vittima perde ogni contatto con la propria vita emozionale.

Nella vittima assistiamo così a una omologazione alle richieste implicite dell’ aggressore, che si traducono nella tendenza alla remissività e a una dissociazione dalle proprie emozioni più autentiche.

Le emozioni più autentiche infatti sono pericolose perché  distolgono dal compito fondamentale (quello di mimetizzarsi) da cui può dipendere la sopravvivenza.

In questo senso la donna di cui parlavo prima sentiva come pericolose le proprie emozioni che la spingevano alla emancipazione.

COME INTERVENIRE ?

Gli studi  sulle conseguenze di un trauma sottolineano come proprio la possibilità di ricordare e raccontare la propria storia costituisce il requisito fondamentale per l’avvio di un processo di cura e,  quando è possibile, di guarigione della vittima.  Con il termine trauma intendo: un evento che non è stato elaborato psichicamente, che non ha potuto diventare storia.

La gravità del trauma non è dunque un valore oggettivo e sempre oggettivabile ma è da considerarsi in relazione alla vittima, alla sua età, alla sua fragilità personale, alla sua capacità di poter elaborare e rendere pensabile il trauma medesimo.

Le persone che soffrono di disturbo da stress post-traumatico rischiano una perdita di contatto con la propria vita emotiva  e con il mondo esterno.

Se non si interviene in modo adeguato e al momento opportuno si ha una stagnazione e una cronicizzazione, una sorta di “paralisi “ della mente.

Anche a livello di comportamento le persone sono portate a restringere sempre di più il loro campo di azione e dunque anche i loro rapporti interpersonali riducendo le loro capacità di progettazione e di investimento sul futuro.

Per queste ragioni la solidarietà di un gruppo, anche della équipe multidisciplinare, può costituire una forma di protezione contro la disperazione.

L’azione terapeutica, in senso allargato,  deve poter interrompere questo blocco del pensiero grazie al contributo del gruppo di operatori, attraverso la solidarietà, il sostegno, la difesa, ma anche attraverso  la proposta di soluzioni  pratiche facilitanti.

Per fortuna l’identificazione con l’aggressore non è mai completa.

C’è qualcosa nella vittima che si oppone sempre alla totale perdita di sé.

Occorre tuttavia che gli operatori non si occupino solo della parte sofferente, ma che gradualmente permettano alla persona di rendersi responsabile, senza colpevolizzarsi, di tutti gli aspetti di sé, anche di quelli che si uniformano alle pretese dell’aggressore.

Il gruppo può essere così uno strumento d’elezione per trattare questi aspetti.

Se la persona maltrattata decide di avviare una psicoterapia, il gruppo di psicoterapia può rispecchiare o rendere visibili proprio quegli aspetti non consapevoli del Sé, aspetti che fanno parte della propria area cieca.

Questi si  evidenziano inoltre focalizzandosi anche sulle dinamiche interne al  team di lavoro, dove ogni operatore può avere risonanze emotive diverse sulla situazione: ci sarà per esempio l’operatore che risuonerà maggiormente sulla parte sofferente della vittima  e quelloche risuonerà maggiormente sulla parte distruttiva.

Il team, nel suo insieme, attraverso una integrazione dei controtransfert dei singoli operatori, tenendo a bada contro identificazioni e contro agiti, potrà ricomporre gli aspetti ancora spezzettati dell’utente.

Quali gruppi di psicoterapia?

Hermann  accenna a tre livelli di elaborazione dell’esperienza traumatica a cui corrispondono tre tipi di gruppo psicoterapeutico che si differenziano per obiettivi e struttura.

Il primo tipo di gruppo si pone come compito di infondere sicurezza e fiducia,  particolarmente attento al qui e ora dell’incontro , utilizza soprattutto i fattori terapeutici della infusione di speranza, della coesione, della universalizzazione dell’altruismo e permette la ripresa della cura di sé.

Il secondo tipo di gruppo ha l’obbiettivo di rielaborare le memorie traumatiche permettendo una rivisitazione del passato che permette di rendere pensabile il trauma, aggiungendo l’utilizzo del fattore terapeutico della catarsi.

Il terzo tipo di gruppo si pone invece nel presente per poter iniziare a riprogettare il proprio futuro, potenziando  una miglior integrazione a livello emotivo e relazionale. I fattori terapeutici dell’apprendimento interpersonale e dello sviluppo di tecniche di socializzazione diventano altrettanto importanti.

L’obbiettivo  è sempre la possibilità  di abbandonare l’identità della vittima .

Perché, insisto su questo punto, è difficile perdere l’identità di vittima se non se ne ha un’altra più autentica a disposizione.

Vorrei citare a questo proposito una donna alla quale il vecchio partner ha ucciso in modo drammatico ed eclatante, il nuovo partner, agnello sacrificale di questa vicenda.

Da ragazzina aveva subito una violenza sessuale, violenza mai  dichiarata, impedita dai  suoi sensi di colpa e dall’ambiente socioculturale di appartenenza. Questo aveva provocato una enorme caduta di autostima e la costruzione di relazioni affettive soltanto con partner violenti o psichicamente disturbati. Fino all’omicidio, annunciato.

Ma la donna fino ad oggi non è riuscita ad uscire dal circuito.

E’ entrata nel circuito del mass media: partecipa a trasmissioni,  racconta l’accaduto,  scrive il proprio diario come se la sua identità fosse comunque solo legata a quegli eventi.

Una ultima riflessione: gruppi terapeutici misti o femminili?

Giovanna Cantarella nel suo libro Donne nei gruppi terapeutici spiega bene le differenze fra i due tipi di gruppo.

Il gruppo misto permette, esplorando le dinamiche di accoppiamento e di attrazione tra i due sessi,  di superare il disastroso modello di comunicazione fra uomini e donne appreso nella famiglia di origine e di cominciare ad intravedere che, oltre alla logica della sopraffazione, esiste quella della reciprocità.

Restano tuttavia,  in tale tipo di gruppo, alcuni temi fondamentali difficili da esplorare quali la vergogna e la colpa per le violenze subite.

Il gruppo femminile , invece, con le sue specifiche dinamiche, permette l’elaborazione di aree mentali tradizionalmente meno esplorate. Proprio l’ “interscambiabilità”, intesa come possibilità di essere visti e di vedersi con gli occhi delle altre donne, permette  ,  il sostegno emotivo, il  parlare con un senso di intimità e calore, un rispecchiamento continuo che può sostenere un nascita di un nuovo modello di femminile.

Come scrive  Cantarella in questo caso può essere importante che anche lo sguardo del terapeuta che rispecchia  sia femminile: la donna terapeuta  può restituire l’orgoglio  di appartenere al genere femminile.

Nel gruppo è comunque fondamentale rispecchiare e valorizzare le risorse di ciascuna uscendo dalla logica della sola denuncia, dal meccanismo cronicizzato dell’identificazione con l’aggressore, dal  rivendicazionismo che alla fine diventano anche fattori di resistenza al cambiamento.

Quale sarà allora il fattore – diciamo così – di guarigione?

Io credo che la vittima, dopo essersi  assunta la responsabilità degli aspetti violenti attraverso una integrazione dei vari aspetti di sé, debba poter sentire di esser degna di una profonda accettazione da parte degli altri – per lo meno di quelli che per lei sono figure significative – per ciò che è autenticamente, non per ciò che gli altri si aspettano da lei.

Solo così potrà arrivare a fondare la propria vita su nuovi valori, su una relazione affettiva basata sull’amore e sullo scambio, una vita che non contempli la distruttività come unica forma  di relazione.

BIBLIOGRAFIA

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Corbella S.  Liberi Legami Un contributo psicoanalitico per un nuovo patto sociale Borla Roma 2014

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