“O i figli o il lavoro” di Chiara Valentini
Attraverso le parole di donne diverse per esperienze e bagaglio emozionale, Chiara Valentini ci conduce alla scoperta delle reazioni del mondo del lavoro di fronte alla maternità. Con un linguaggio chiaro e avvincente, l’Autrice ci racconta, da diverse angolazioni, cosa accade alle donne nel loro campo lavorativo quando decidono di avere un bambino. Nel libro emerge molto bene come in qualsiasi attività lavorativa, precaria o a tempo indeterminato (che può spaziare da addetta alle pulizie, a operatrice di call center, a manager), le donne si trovino di fronte ad emozioni come colpa e vergogna, che rimandano ad un passato ancestrale, per una maternità che pensano di dover nascondere per non perdere il loro posto di lavoro. Nonostante i cambiamenti nel mercato del lavoro, che si muove sempre di più all’interno di contratti a tempo determinato che dovrebbero garantire una maggiore flessibilità, nella pratica sembra che oggi il campo lavorativo proponga alle donne un impegno così totale che non può contenere al suo interno nessun progetto futuro di gravidanza. L’Autrice racconta, con vividi dettagli, cosa avviene in Italia fornendo una specifica panoramica delle zone del sud, si addentra nella situazione delle donne migranti nel nostro paese e descrive come è gestito il rapporto tra maternità e lavoro in Francia, in Svezia e in Germania, fornendo al lettore approfondimenti legislativi e giuridici. Una parte del lavoro è dedicata al ruolo del padre e ai cambiamenti che sta assumendo nella nostra società. Tutti i capitoli sono organizzati in forma di romanzo, avvincono nella lettura e offrono una guida preziosa per orientarsi all’interno delle norme vigenti alla ricerca dei diritti per le madri che lavorano. Chiara Valentini, giornalista e saggista, entra molto bene nelle pieghe della realtà italiana e anche di altri paesi, districandosi tra burocrazia e storie di vita che vengono narrate nella loro dolorosa intensità.
Chiara Valentini non appartiene al mondo delle professioni psicologiche, eppure il suo libro trasmette un’emozione particolare. Leggendolo ho immaginato quante donne si sono potute riconoscere nelle storie e negli argomenti trattati. Mi ha fatto pensare ad un libro “gruppale” che crea aggregazione e vicinanza su un tema di cui si parla tanto, ma rispetto al quale sembra esserci anche una certa volontà di nascondere e passare avanti. Credo che la recensione di questo libro possa bene inserirsi in un numero monografico sul tema del gruppo delle donne.
Come psicologa, particolarmente interessata all’età evolutiva, posso dire che questo libro ha suscitato in me diversi spunti di riflessione. Pensando alle madri di bambini piccoli che mi capita di incontrare nel mio lavoro, in molte situazioni emerge come l’interruzione del lavoro alla nascita del figlio abbia causato vissuti di incapacità e di inadeguatezza in un’area dell’identità che riguarda il femminile produttivo. Se, molto spesso, queste madri hanno inizialmente pensato che dedicarsi esclusivamente ai figli non fosse una scelta così sbagliata (anche se forzata), successivamente la mancanza di un ambiente lavorativo in cui confrontarsi con pari ed ampliare le proprie capacità e prospettive, ha costituito un rilevante fattore di rischio per lo sviluppo del bambino. Spesso queste donne, per compensare una carenza nel loro profilo identitario, investono eccessivamente sui figli, non permettendo un’adeguata separazione-individuazione necessaria per una crescita sana che si apre al mondo delle relazioni sociali. Riporto le parole di una mamma, durante un incontro chiesto per difficoltà della figlia di due anni: “io avrei voluto lavorare, ma mi chiedevano un orario sempre più impossibile. Allora sono andata via e pensavo che dedicandomi esclusivamente a mia figlia sarebbe andato tutto bene. Invece lei ora vuole stare sempre attaccata a me, non vuole andare al nido e piange tutta la notte se la lascio nel suo lettino”.
Altro aspetto molto rilevante riguarda i delicati periodi della fine della gravidanza e del post-partum, che sembrano essere disturbati dalle preoccupazioni per la possibile perdita del posto di lavoro. Dalla ricerca clinica ed empirica in campo psicologico, sappiamo che le madri, dagli ultimi tre mesi di gravidanza fino ai primi mesi di vita del bambino, vivono uno stato psicologico molto particolare caratterizzato da una profonda ed assorbente partecipazione alle fantasie e alla esperienze del proprio figlio. Si tratta di una caratteristica naturale, biologicamente radicata e adattiva. Ed è proprio la capacità della mamma di essere temporaneamente in grado di preoccuparsi in modo totale del proprio bambino che le permette di sentirsi adeguata nel suo nuovo ruolo e di poter recuperare lentamente le sue relazioni con il mondo circostante e la propria capacità lavorativa. Se questo momentaneo ritiro non può essere vissuto serenamente, e la mamma è preoccupata dalle sue vicende lavorative, la donna fatica ad entrare in contatto profondo con il proprio bambino e può sviluppare diverse fantasie e pensieri disturbanti che, se si protraggono nel tempo, rendono difficile il rapporto con il nuovo nato, arrivando fino allo sviluppo di forme severe di depressione post-partum che inficiano seriamente la salute mentale del bambino. E’ quindi molto grave la situazione italiana rispetto alla maternità che non consente alle donne di vivere questa delicata fase in uno stato emotivo il più possibile libero da preoccupazioni.
Inoltre, è ormai noto in campo psicologico come la gravidanza e la nascita di un figlio rappresentino un periodo molto delicato per la donna, caratterizzato sia da una perdita legata alla conclusione della gravidanza, sia da un’acquisizione che si collega alla nascita del figlio. La mente materna può essere assorbita da pensieri relativi alla perdita del proprio corpo da gestante con il quale si era completamente identificata e alla disillusione derivante dalla percezione di uno scarto inevitabile tra il bambino immaginato ed il neonato reale. Questi pensieri provocano spesso una sensazione di tristezza, che può amplificarsi a causa di vissuti di incapacità sperimentati dalle mamme durante le fasi iniziali dell’accudimento del proprio bambino. Questo stato d’animo è solitamente transitorio e, se non intervengono eventi stressanti (come il timore di essere mandata via dall’ambiente lavorativo oppure la perdita del lavoro e la necessità di trovare un’altra soluzione), in breve tempo retrocede sullo sfondo per permettere alla mamma di avvicinarsi emotivamente ai vissuti del proprio bambino, di comprenderlo e di trovare delle risposte ai suoi bisogni. Ed è proprio grazie alla possibilità di poter attraversare una crisi di assestamento in cui la tristezza è centrale, che la donna può organizzare un nuovo assetto mentale, una “costellazione materna”, che le consentirà di prendersi cura del suo neonato ridefinendo i propri valori, interessi e priorità. Questa fase di tristezza spesso non permette il medesimo rendimento nell’ambito lavorativo che la donna aveva prima della gravidanza. Naturalmente, l’efficienza lavorativa potrà essere recuperata in seguito perché si tratta di una crisi “fisiologica” e necessaria alla donna per canalizzare tutte le sue energie sulla relazione con il nuovo nato.
Se la letteratura psicologia da anni sottolinea l’importanza che la donna viva in un ambiente emotivo il più possibile stabile durante la gravidanza e nel post-partum e che abbia una mente libera da intrusioni esterne per potersi occupare di se stessa e del bambino specialmente nei primi mesi di vita, dalle parole di Chiara Valentini sembra che la società contemporanea non protegga per nulla questa fase così delicata dello sviluppo dell’identità femminile. Inoltre, se è vero, come ci ricorda l’Autrice, che il padre può assumere un ruolo rilevante, non dobbiamo dimenticare che diventare madre è un processo necessario per l’acquisizione di un’identità femminile matura e il partner, se può costituire un valido aiuto alla donna, non può sostituirsi a lei. Infatti, gli studi in campo psicodinamico sottolineano come l’attesa e la nascita di un bambino possano essere considerati una fase fondamentale nel ciclo vitale femminile, in quanto consentono alla futura madre di riorganizzare il proprio mondo interiore, creando nella sua mente uno spazio adatto a contenere l’idea di un bambino e di se stessa come genitore. In particolare, nella donna la gravidanza e l’accudimento di un bambino comportano una trasformazione dell’identità dovuta all’acquisizione e all’integrazione delle funzioni materne, come la capacità di prendersi cura, di proteggere e di entrare in sintonia con il proprio figlio. A queste trasformazioni si unisce anche la centralità dell’identità lavorativa, che accompagna la donna nel tempo e le consente di accogliere il suo ruolo materno, ma anche di rimanere produttiva all’interno della società. Senza dimenticare la fondamentale rilevanza degli aspetti economici, la perdita del lavoro causata dalla maternità mette le donne in uno scacco concreto ed emotivo verso se stesse e verso la società, perché crea un taglio netto ad un’area fondamentale dell’identità.
Lo scenario che emerge dal libro di Chiara Valentini è sicuramente preoccupante, perchè sappiamo che donne angosciate e in difficoltà non possono assumere adeguatamente il loro naturale ruolo materno e questa condizione mentale femminile rappresenta un rilevante fattore di rischio per lo sviluppo di problemi emotivi e comportamentali nei bambini fini dai primi anni di vita. Forse possiamo pensare che la tutela della maternità e dell’identità femminile, oltre ad essere una questione di pari opportunità, sia necessaria per prevenire numerose forme di disadattamento infantile. Permettere alle donne di allontanarsi dal loro lavoro per un tempo sufficiente a garantire un inizio adeguato di una nuova vita mentale dovrebbe essere il diritto più tutelato in ogni società che si definisca tale. Ad esempio, una giovane mamma al suo primo figlio, racconta “io sapevo di dover tornare presto a lavorare e non ho allattato mio figlio. Ho preferito che fossero mia madre e mio marito a dargli il biberon. Non volevo soffrire troppo”. Il suo bambino, di tre anni, mangia solo cibi frullati. Possiamo quindi pensare che, oltre alle problematiche psicopatologiche dei singoli, la società abbia un peso molto rilevante.
Inoltre, nel nostro mondo, spesso le donne che diventano madri sono sole: il mio augurio è che, grazie alle parole di Chiara Valentini, le mamme diventino più capaci di attivare un pensiero che le possa far sentire parte di un gruppo di donne, invece che figure solitarie che hanno perso la propria identità lavorativa.
Concludo questa breve recensione con le parole di una mamma che si trova nella fase finale della sua seconda gravidanza: “mi piace fare la mamma, ma non sono solo questo. Dopo la nascita della mia prima figlia ho lasciato il lavoro. Oggi ho un’attività in proprio e non potrei farne a meno. Mia madre ha lasciato il lavoro per noi figli, io ho sempre pensato che ci desse la colpa di averle tolto qualcosa di importante. Non voglio che i miei figli pensino questo di me”.