CarnevaleQuaresima

Premessa

Quando, circa due anni fa, Stefania Marinelli, anche con il suggerimento di Robert Hinshelwood, ci contattò  proponendoci di curare un numero monografico di Funzione Gamma sul tema della Comunità Terapeutica, avvertimmo un forte sentimento di piacere e di preoccupazione. Eravamo convinti che ci venisse offerta una importante occasione per scrivere di un argomento a noi molto caro, ma anche estremamente complesso. Il lavoro svolto da anni per la rivista on-line www.terapiadicomunita.org e la cultura di numerosi amici e colleghi ai quali siamo legati da affetto e stima e che hanno accettato di collaborare, ci hanno abbastanza rassicurati per tentare di offrire al lettore una visione di insieme della condizione attuale del movimento culturale delle comunità terapeutiche nel momento storico contemporaneo.

In passato molti autori più importanti di noi hanno curato una raccolta monografica, pertinente al proprio momento storico: Diego Napolitani nel 1972, curando gli Atti del Convegno da lui organizzato a Milano nel 1970; David H. Clark nel 1973; Robert Hinshelwood e Nick Manning nel 1979; Elly Jansen nel 1980;  Margherita Lang nel 1982; Anna Ferruta, Giovanni Foresti ed Enrico Pedriali, che nel 1998 curarono la pubblicazione di oltre cinquanta relatori internazionali e nazionali che avevano partecipato al Convegno di Mito & Realtà svoltosi a Milano nel giugno del 1996.

Ma i tempi cambiano, molti aspetti delle psicopatologie anche, la cultura delle comunità terapeutiche si evolve: pur tra tormenti e nel corso di oltre settanta anni (il termine è stato coniato da Tom Main nel 1946 ) sono stati sviluppati diversi punti di vista teorici, metodologici e tecnici, e sono stati pubblicati numerosi scritti sui modelli organizzativi, le aspirazioni, i dubbi, i  problemi, i  risultati,  i successi e i fallimenti.

Certamente potremmo citare molti altri convegni e pubblicazioni che hanno costituito radici, germogli e sviluppi della cultura della comunità terapeutica (che in Italia è stata ribattezzata con il neologismo “psichiatria residenziale“) ma non possiamo esimerci dall’indicare ancora almeno due punti di riferimento:

– nel corso degli anni molti colleghi come Robert Hinshelwood e Kingsley Norton ci avevano manifestato la loro perplessità nel constatare come in tantissime istituzioni convivessero pazienti con problematiche psicopatologiche molto diverse: psicosi, disturbi di personalità, tossicodipendenze… Quando nel 2004 Silvia Corbella, Raffaella Girelli e Stefania Marinelli pubblicarono il loro lavoro sull’importanza dei gruppi omogenei, su come questi potessero facilitare l’atmosfera della convivenza, l’elaborazione delle loro problematiche e l’attenzione e la cultura del gruppo di lavoro dei curanti, si aprì un nuovo capitolo nella cultura della psichiatria residenziale. Forse sono ancora poche le istituzioni italiane che cercano di raccogliere gruppi omogenei, ma il volume curato da Anna Ferruta, Giovanni Foresti e Marta Vigorelli nel 2012 raccoglie molti scritti degli amici e colleghi di Mito & Realtà in merito all’importanza di differenziare la strumentazione delle comunità residenziali secondo la psicopatologia dei soggetti, oltre che approfondire i fattori clinico-riabilitativi, organizzativi (procedure d’invio e dimissioni, funzione e importanza della leadership, psicoterapia individuale, gruppale e familiare, reinserimento esterno), di formazione degli operatori.

– Giovanni de Girolamo è certamente lo studioso di psichiatria epidemiologica e valutativa che ha dedicato un grande impegno al progetto PROGRESS (iniziato nel 2000), uno dei più ampi progetti a livello internazionale nel campo dell’assistenza psichiatrica residenziale, che ha consentito di censire tutte le strutture italiane, valutando 264 di queste e i loro circa 3.000 ospiti. Se la ricerca fosse proseguita regolarmente nel corso degli anni, certamente avrebbe offerto un’importantissima lettura della realtà italiana; purtroppo anziché continuare e documentare la cinetica e i cambiamenti della realtà nazionale, si è interrotta per mancanza di fondi.

 

  1. Un caso di Ingegneria terapeutica

Nel prenderci cura di questo numero monografico di Funziona Gamma, avevamo necessità di individuare un argomento che ci aiutasse a definire le fil rouge dei lavori che avremmo potuto richiedere di trattare agli amici e colleghi.

Ci ricordammo di un argomento che Robert Hinshelwood aveva trattato in una conferenza tenutasi a Varese nel ottobre 1998 e che avevamo successivamente discusso a lungo con Robert, discutendone numerose volte a cena e negli incontri di formazione che egli ha tenuto presso la nostra Comunità Terapeutica Il Porto Onlus: il tema di come si debba e/o si possa costruire una organizzazione sociale di interazione tra due gruppi sociali così diversi tra loro, quello dei  terapeuti e quello dei pazienti.

Nell’articolo (Hinshelwood R., 2001), Robert osserva come sia semplicistico pensare che, in considerazione del fatto che i manicomi erano grandi, oggi sia sufficiente fare istituzioni piccole; o che, visto che i manicomi erano fuori città, ora basti insediarsi nel tessuto cittadino… Anch’egli concordava sul fatto che, per quanto il termine coniato da Tom Main nel 1946 “Comunità Terapeutica” (ed ora storpiato dai neologismi della cultura italiana in Strutture Residenziali, o peggio ancora da acronimi come S.R.P.1, S.R.P.2, S.R.P.3 – aggiungiamo noi ) sia molto carico di importanti valori semantici, sia altresì importante costruire una casa ove avvengano tantissime cose: un’articolazione di aspetti di atmosfera, di teorie e di tecnica.

Naturalmente il discorso di Robert Hinshelwood  è molto più ricco ed articolato di come lo abbiamo sintetizzato, ma vorremmo dire che con la chiusura dei vecchi manicomi si sono aperte nuove prospettive e nuovi sviluppi, tutt’ora in corso, un cambio di orientamento o di paradigma, un cambio di approccio e di civiltà.

Questo numero di Funzione Gamma avrebbe dunque l’ambizione di esporre qualche buona considerazione su come debbano essere progettate e costruite le cosiddette “comunità terapeutiche”.

Sebbene ci sembri che abbiamo sviluppato tantissimo in oltre settanta anni, conserviamo il valore del dubbio e dell’incertezza e l’opinione che vi sia ancora molto da studiare e sviluppare.

Abbiamo scelto come immagine un olio su tavola esposto al Kunshistorisches Museum di Vienna, un opera di Pieter Bruegel che si intitola Lotta tra Carnevale e Quaresima, 1559.

Gli studiosi della pittura di Pieter Bruegel si sono soffermati sul tema della sua offerta di meditazione sulla condizione umana ed anche sulla sua capacità di ritrarre l’uomo, senza alcuna idealizzazione e con garbata ironia, nelle sue spinte più problematiche, calato in un universo per niente idilliaco. L’unica figura che scampa alle condanne dell’esistenza terrena è il pastore, un soggetto inserito spesso nei dipinti di Bruegel, figura immobile che rappresenta il contrasto e l’ammonimento, l’osservatore di fronte alle tempeste del mondo che scompare nelle opere più cupe della fase finale della sua produzione artistica.

Vorremmo chiedere al lettore e agli amici che hanno contribuito a questo numero della rivista, se la scelta di questa immagine appaia sufficientemente adeguata a rappresentare la vita di una persona, in quel periodo così particolare in cui si trova a convivere con altre persone problematiche in una comunità terapeutica. Se sia emblematica della sua condizione, del suo combattimento tra il lutto per il passato – di cui ha scritto Antonello Correale – e il tentativo di cambiare la propria vita in futuro, con l’angoscia che permea la coazione a ripetere e un difficile equilibrio tra individualità e gruppalità, tra mondo interno e mondo esterno; e, infine, se la figura del pastore possa essere adeguata a rappresentare quella funzione che in termini contemporanei viene indicata come funzione della leadership…

 

  1. Il vecchio baricentro a una dimensione

Nella conferenza tenuta a Tunisi da Michel Foucault Des espaces autres e pubblicata in lingua originale solo nel 1984, l’autore coniò un nuovo termine “eterotipie” (dell’Altrove) per indicare “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano”. Nell’elenco ebbe a parlare di tanti luoghi, veramente molto diversi tra loro, come lo specchio, in cui ci vediamo dove non siamo, del cimitero come luogo di unione/separazione tra lo spazio dei vivi e quello dei morti, dei teatri, dei cinema, dei giardini, delle camere d’albergo, dei manicomi, delle prigioni… Pur argomentando di luoghi profondamente diversi tra loro, essi avevano un minimo comune denominatore: una sospensione altrove, per un breve o lungo periodo di isolamento dalle consuete comunicazioni, dalla nostra o da quella di altri. Dunque una sospensione dello spazio e del tempo, nostra o di altri.

Nel caso dei manicomi e delle prigioni si palesava l’intento della collettività di consolidare una difesa sociale, eliminando il più possibile ogni fonte di disturbo e collocando queste istituzioni lontano dal centro delle città.

Chi conosce la storia della psichiatria sa bene che è una falsa generalizzazione affermare che tutti i manicomi fossero stati concepiti per essere iatrogeni, brutti, mal gestiti, come luoghi per segregare o picchiare i pazienti.

Visitando uno dei tre musei italiani di storia della psichiatria (1) ci si può rendere conto di come, in più di un caso, il manicomio fosse un sistema di edifici e spazi complementari costituente una vera e propria micro-città con confini fisici segnati da muri di recinzione e accessi vigilati. Accanto agli edifici direzionali, ai padiglioni di degenza, differenziati a seconda delle patologie, ai gabinetti medici e agli alloggi del personale, i complessi includevano anche servizi comuni (chiesa, biblioteca, teatro), laboratori di espressione artistica e officine destinati all’ergoterapia (falegnameria, tessitoria, calzoleria, sartoria, tipografia e altro), nonché spazi verdi adibiti a giardino, a orto o a colonia agricola.

 

  1. Un nuovo baricentro, un orientamento a ventaglio o a molte dimensioni

Dalla fine della seconda guerra mondiale, gradatamente si diffonde in Europa un diverso orientamento volto al reinserimento sociale delle persone che avevano problemi psichiatrici che dà vita, in alcuni paesi di più ed in altri di meno, a un variegato ventaglio di istituzioni.

Se le comunità terapeutiche, le comunità alloggio, i gruppi appartamento si occupano oggi dei pazienti in fase sub acuta ma che purtroppo non sono ancora in grado di tornare a vivere presso la loro famiglia d’origine o di crearsi una nuova famiglia, occorre riconoscere che questo fenomeno si è potuto verificare grazie al superamento di un vecchio stigma che condannava ad una vita altrove.

Se riprendiamo il concetto d’ingegneria terapeutica, dovremmo costatare che non si è trattato soltanto di come organizzare una singola istituzione, ma anche di come diverse istituzioni si stavano distribuendo sul territorio nazionale.

Giovanni de Girolamo nella sua ricerca (de Girolamo ed al, 2004) ha illustrato come si sia sviluppato tanto nella psichiatria residenziale italiana ma che vi sia una folle variabilità tra le Regioni sia per quanto riguarda il numero dei ‘posti letto’ che per i modelli organizzativi. E che tale variabilità non abbia nulla a che fare con tassi di prevalenza dei disturbi tra le Regioni (che sono infatti del tutto simili), ma che si sia verificata in seguito ad orientamenti regionali, prodotto delle pseudo-argomentazioni scientifiche pilotate da ‘esperti’ locali, da interessi e forze di potere sia nel pubblico che nel privato, da tentativi di risparmio della spesa. Al tema della nascita e degli sviluppi, delle enfatizzazioni e dei ridimensionamenti, dei malefici e delle malesorti del movimento delle comunità terapeutiche in Italia, anche numerosi altri autori hanno dedicato delle pubblicazioni (Malinconico, Prezioso, 2015 ).

 

  1. Lo sviluppo storico della comunità terapeutiche, le lotte ideologiche ed i condizionamenti del Terzo

In altri lavori abbiamo cercato di effettuare una prima analisi di una vicenda molto complessa ed articolata, sia in Inghilterra (Hinshelwood, 2015) che in Italia (Corulli, 2015). Forse avremmo necessità di uno studioso di storia contemporanea per individuare meglio la ricchezza ma anche la problematicità di quanto si è sviluppato in molti decenni. E di uno studioso di economia per valutare quanto lo stato italiano sta risparmiando attualmente in spesa pubblica per la cura dei pazienti psichiatrici, rispetto alla spesa pubblica del vecchio modello istituzionale antecedente al 1978.

Allo stato attuale:

– manca una mappatura nazionale delle varie ramificazioni della cosiddetta psichiatria residenziale, che naturalmente dovrebbe essere regolarmente aggiornata, anche per consentire il diritto di scelta dei cittadini, che si fonda sul diritto all’informazione.

– manca ed è mancata un’attività di ricerca sulle condizioni dei pazienti, all’ammissione, a sei mesi, alle dimissioni…

– le istituzioni universitarie e le comunità scientifiche più importanti sono state molto assenti nello sviluppo delle istituzioni residenziali nei suoi vari aspetti

– mancano delle linee guida nazionali che indichino con maggiore chiarezza – pur rispettando l’antica dicotomia (ad orientamento più psicodinamico o ad orientamento maggiormente socializzante) – gli orientamenti concettuali, pratici e di personale adeguato.

Riassumendo, potremmo dire che così come non sappiamo con chiarezza le caratteristiche di quanto erogato, non abbiamo indicazioni sull’appropriatezza. Con dispiacere vorremmo sostenere che il Ministero della Salute non è stato un Terzo che ha promosso l’evoluzione, e l’Università non è stato un Terzo che ha particolarmente promosso cultura e ricerca.

Recentemente, nel corso di un convegno sulla funzione dei centri Diurni, Giovanni de Girolamo citava lo scritto di Roger Penrose sulla fisica dell’universo (Penrose, 2016), per sostenere che anche in psichiatria molto si è mosso e sviluppato sulla base di Fashion, Faith and Fantasy. Tre fattori ai quali potremo aggiungere, come sgradevoli intrusi, quelli delle lotte tra ideologie, della burocrazia, del primato del risparmio della spesa e, recentemente, quello di una visione fordistica o meccanicistica della psichiatria, per la quale non servirebbe più parlare con i pazienti, fare anamnesi, ma sarebbero sufficienti scale di valutazione come le GAF e le HoNos.

Ci auguriamo che il lettore trovi in questo numero qualche concetto o pensiero ragionevole per comprendere meglio la mission che caratterizzerebbe la psichiatria residenziale.

 

Bibliografia

Clark D.H., (1973) Social Therapy in Psychiatry, Penguin Books, Harmondworth. Ed It. (1976) Psichiatria e terapia sociale. Milano: Feltrinelli.

Corbella S., Girelli R. Marinelli S. (2004) Gruppi omogenei. Roma: Borla.

Corulli M., (2015), Appunti sul movimento delle Comunità Terapeutiche in Italia. Nascita. Sviluppi, enfatizzazioni, malefici e malesorti…, in Malinconico A., Prezioso A. (2015) Comunità Terapeutiche per la salute mentale. Milano: Franco Angeli. V. anche www.terapiadicomunita.org Anno 16, n.62, Febbraio 2016.

de Girolamo G., Picardi A., Santone G., Semisa D., Morosini P. (eds) per il Gruppo Nazionale PROGRES (2004). Le strutture residenziali e i loro ospiti: i risultati della fase 2 del progetto nazionale ‘PROGRES’. Epidemiologia e Psichiatria Sociale Supplemento 7.

Ferruta A., Foresti G., Pedriali E.,  Vigorelli M, (1998) La  comunità terapeutiche, Tra mito e realtà. Milano: Raffello Cortina.

Ferruta A., Foresti G. Vigorelli M, (2012) Le comunità terapeutiche, Raffaello Cortina, Milano.

Foucault M., (1984 ) Dits et écrits, Des espaces autres (conférence au Cercle d’études architecturales, 14 mars 1967), in Architecture, Mouvement, Continuité, n°5, octobre 1984. Ed. it. Eterotipie, in: Archivio Foucault, 1998. Milano: Feltrinelli.

Hinshelwood R.D., Manning N., (1979) Therapeutic Communities. London: Routledge & Kegan Paul.

Hinshelwood R. (2001),  Aspetti etici del lavoro di comunità terapeutica, Anno 1, n. 2 www.terapiadicomunita.org

Hinshelwood R. (2015), Comunità Terapeutiche “vere e proprie” e “ improprie”. Una riflessione su alcune visioni inglesi e italiane. in Malinconico A., Prezioso A.  (2015) Comunità Terapeutiche per la salute mentale. Milano: Franco Angeli.

Jensen E., (1980) The Therapeutic Communities. London:  Croom Helm.

Lang M., (1982) Strutture intermedie in psichiatria. Milano: Raffaello Cortina.

Malinconico A., Prezioso A. (2015) Comunità Terapeutiche per la salute mentale. Milano: Franco Angeli.

Napolitani D., (1972) Psichiatria comunitaria e socioterapia. Minerva psichiatrica e psicologica, vol 13, suppl. n. 2.  L’edizione originale, arricchita da ulteriori autori,  è stata ripubblicata: Di Marco G., Nosè F., (2010) La clinica istituzionale in Italia. Milano:  Franco Angeli.

Penrose R. (2016), Fashion, Faith and Fantasy in the New Physics of the Universe. Princeton University Press.

Note

(1) A Reggio Emilia, nel Padiglione Lombroso dell’ex Ospedale Psichiatrico San Lazzaro, a Roma nell’ex Ospedale Psichiatrico di Santa Maria della Pietà ed a Venezia nell’ ex Ospedale psichiatrico di San Servolo.