René Kaës – Intervento SIPP
a cura di Stefania Marinelli, Sergio Stagnitta, Walter Iacobelli, Marco Tramonte, Raffaella Di Donato
In questa sezione riportiamo l’intervento di René Kaës presentato alla SIPP e una breve introduzione della dr.ssa Rosa Romano Toscani.
Organizzato dalla Sezione Regionale SIPP – Lazio in collaborazione con i Dipartimenti di Salute Mentale delle ASL RMA E ASL RME. Aula dell’Accademia di Arte Sanitaria – Ospedale Santo Spirito – Roma 13/11/1999
Introduzione
Rosa Romano Toscani
Le forme della violenza, il coraggio e la necessità di parlare di violenza, di entrare nel vivo e all’interno di un tema scottante che influenza gran parte dei comportamenti sociali. Recenti Congressi stanno cercando di approfondire e definire i diversi volti della violenza. Oggi, psicoanalisti e psicoterapeuti non possono non occuparsi di questo tema e non analizzare gli aspetti inconsci che determinano la violenza nei comportamenti sociali e si esprimono in violenza nei confronti delle minoranze etniche, degli anziani, dei bambini, dell’ambiente e dei diversi. L’etimologia della parola “violentia”, da “vis” (lat.), originariamente indicante “forza, vigore, possanza, prepotenza”, è stata in seguito associata al concetto di “far forza, opprimere, distruggere” (1).. Lo studio dei meccanismi inconsci, che originano distruzione e violenza, può essere oggi di grande utilità per chi opera nel sociale e si interessa all’uomo e alla struttura “gruppologica” della personalità. René Kaës si occupa da molti anni di studiare i legami intersoggettivi, la realtà psichica, la sofferenza e la violenza nei legami istituiti, cercando di mettere a fuoco un’ipotesi sufficientemente forte per fondare una teoria psicoanalitica del legame e dell’intersoggettività. Ponendo l’attenzione sulla complessa costituzione del legame Kaës propone di scrivere una storia della psicopatologia dei legami istituiti con le sue implicazioni metodologiche, teoriche e cliniche in termini psicoanalitici. Mantenendo vivo il rapporto con la tradizione, Kaës sottolinea più volte l’interesse di Freud per l’influenza della cultura nella vita psichica individuale, l’influenza del gruppo e le sue relazioni con essa. Per Kaës la vita psichica trova i suoi sostegni nei legami e negli oggetti della cultura. Se essi vengono a mancare o non sono sufficientemente stabili la vita psichica è a rischio. Le forze libidiche delle identificazioni sono, quindi, materia prima di istituzioni affidabili e durature, basi dei legami intersoggettivi con regole entro le quali l’individuo può essere “il servo, il beneficiario, l’erede”. “La realizzazione di tale progetto – egli dice – propone un certo numero di alleanze tra alcune formazioni psichiche, che in ciascun soggetto trovano una corrispondenza o una risonanza nell’altro, in modo tale che queste alleanze siano sufficientemente investite e protette dall’uno o dall’altro, in forza degli interessi comuni e specifici che ciascuno vi trova” (2). Ma affinché ciò si realizzi è necessario il riconoscimento, il sostegno ed anche la costrizione delle forme sociali. Entro questi parametri si articolano varie forme di sofferenza, di psicopatologia e di violenza. Il movimento psicoanalitico, fondandosi sulla cultura del modello occidentale individualistico, ha lasciato in ombra ciò che Kaës chiama “il desiderio inconscio dell’altro”. Nel suo lavoro egli suggerisce dunque una doppia visione, una doppia metodologia: tenere in considerazione sia “il soggetto dell’inconscio” (il soggetto del gruppo), sia “gli insiemi intersoggettivi” che formano e reggono una parte specifica della realtà psichica “in una co-genesi e in una co-epigenesi di queste formazioni e di questi processi”. La complessità di tali intrecci comporta un funzionamento psichico individuale o del legame istituito, che può essere soggetto a vari gradi di sofferenza o di violenza. L’istituzione, il legame istituito, è un punto nodale che mobilita, canalizza, controlla funzioni e processi psichici. Kaës propone di “pensare l’istituzione come oggetto di pensiero” mettendo in luce le difficoltà insite in tale approccio. Le istituzioni, in quanto gruppi istituiti, possono infatti essere sedi di conflitti coscienti e inconsci e possono dare origine a varie forme di violenza. I conflitti inconsci possono produrre violenza nella stessa istituzione, che non soddisfa il mandato per cui è stata creata, nella società che si sente danneggiata da un cattivo funzionamento, negli individui che ne fanno parte perché soffrono di mancate realizzazioni, nei soggetti esterni all’istituzione che chiedono prestazioni. Nell’istituzione il soggetto viene, infatti, messo a confronto con la “violenza dell’origine” con un fondo di irrappresentabile al di qua della rimozione. “Siamo posti di fronte al pensiero – dice Kaës – che una parte del nostro Sé è fuori di Sé e che quello stesso qualcosa che è fuori di Sé è la cosa più primitiva, più indifferenziata, lo zoccolo duro del nostro essere” (ibidem), che ci può esporre alla follia, ma che alimenta tuttavia anche la nostra creatività. Le riflessioni che Kaës propone nella sua relazione riguardano quanto dell’irrapresentabile e di ciò che non si può simboleggiare produce violenza. Ho conosciuto René Kaës a Napoli, in occasione di un Seminario organizzato dalla Sezione Campania e sono rimasta colpita dalla sua sensibilità e dalla sua intuizione clinica. In quella sede egli ha parlato di cure difficili, della violenza del reale, del fantasma e del lavoro, del pensiero nei dispositivi duale e di gruppo. Abbiamo quindi accolto volentieri la proposta del prof. Claudio Neri, che qui ringrazio vivamente, di offrire alla S.I.P.P., una mattinata di studio con Kaës. Ringrazio, inoltre, la ASL RM A e la ASL RM E per aver aderito a questa iniziativa e per lo scambio che ormai ci vede uniti in uno sforzo di approfondimento di studio, di ricerca e di formazione nei riguardi dei concetti psicoanalitici che costituiscono la base e la matrice metodologica e clinica del nostro lavoro terapeutico.
Note 1. Pianigiani O. (1991). Vocabolario etimologico della lingua italiana. Ed. Polaris, Genova.
2. Kaës R., ed altri (1996). Sofferenza e psicopatologia dei legami istituzionali. Ed. Borla, Roma 1998.
Violenza Organizzatrice, Violenza Distruttrice. Il lavoro di simbolizzazione della violenza in una istituzione di cura***
René Kaës
Partirò da una situazione clinica per mettere in luce la questione che la violenza distruttrice risulta da un difetto di riconoscimento della violenza che opera nel momento della costituzione di tutte le istituzioni. Distinguo tre forme di violenza: la violenza che si origina (violenza dell’origine, violenza nell’origine), la violenza che simbolizza e la violenza che distrugge. Questa distinzione formerà il filo conduttore della mia esposizione clinica; proporrò in seguito un’elaborazione che desidererei sottoporre alla vostra discussione.
1. GLI EFFETTI NON SIMBOLIZZATI DELLA VIOLENZA ORIGINARIA IN UNA ISTITUZIONE DI CURA: “I FONDATORI SPARISCONO”.
Si tratta di un’équipe di medici in un day hospital che funziona come unità di cura psichiatrica rivolta agli adulti. Ho assicurato nel corso di molti anni la supervisione settimanale, poi mensile di questi curanti, assistendoli nel lavoro di elaborazione della loro pratica. La sequenza che riporto di seguito accade dopo qualche anno di funzionamento, nel momento in cui l’équipe si sente angosciata davanti alla scadenza di una ridefinizione del proprio progetto terapeutico. I risultati sembrano essere positivi, ma da qualche mese le cose non vanno bene, le crisi sono continue: tutto avviene come se nessuno potesse far niente. Durante molti mesi una violenta rivendicazione contro il capo dell’équipe si era nutrita di tutti i motivi utilizzabili, la sua autorità era contestata e rafforzata dall’idealizzazione costante di cui era oggetto. Contemporaneamente, lati interi della vita quotidiana sembravano essere tornati a una specie di anarchia nei rapporti fra i curanti: si disputavano la “proprietà” delle cure, ognuno rivendicava la superiorità della propria capacità terapeutica, discreditando tutti gli altri. Anch’io ero scoraggiato, con l’idea che tutto quello che noi avevamo fatto non era servito a niente o a poco. Sognavo di essere altrove e mi sentivo colpevole. Poi, durante un periodo precedente la seduta che richiamerà la nostra attenzione, i medici manifestano un abbattimento profondo, un’apatia o uno stupore ai quali subentrano momenti di attivismo intenso. I biasimi contro il capo cambiano oggetto e tonalità: come il padre dell’orda primitiva descritto da Freud, lui si accaparrerebbe tutti i pazienti e tutti i risultati positivi dovrebbero essergli attribuiti. Tutti dicono di sentirsi molto a disagio sia nei rapporti, spesso tesi, con i pazienti, sia fra di loro: molti dei curanti vogliono andarsene, il loro lavoro li disgusta. L’Amministrazione chiede loro di ridefinire il progetto terapeutico, e dunque la loro identità. Questa si raffigura nel loro animo come un’immagine terrificante, arbitraria e insufficientemente stabile. La seduta inizia, come spesso da mesi, con un silenzio lungo e pesante: ognuno guarda gli altri furtivamente e affonda la testa tra le spalle, verso “il vuoto dei propri pensieri” come diranno alcuni. Un infermiere chiede, aggressivamente, se si continuerà a dormire così mentre i malati soffrono. “A che serve continuare” commenta lo psicomotricista, in un movimento depressivo che lo caratterizza da qualche seduta, “non siamo più in un day hospital, ma in un ospedale di notte: dormire è il regime quotidiano da più di quindici giorni, tutti dormono, come dai cronici”. “Ci sono troppi malati, veramente troppi – si lamenta un infermiere – e ce ne sono alcuni che farebbero meglio a sparire!”. La violenza di questo augurio di morte parricida ed infanticida, indirizzato sia al capo dell’équipe, sia ai malati, rafforza il silenzio: ognuno si raggomitola ancora di più in se stesso. Faccio notare che da qualche tempo ci sono state delle assenze frequenti dalle sedute: “S” – dice l’infermiere che si è dimostrato preoccupato dell’interesse dei malati – ci sono stati dei cedimenti nell’équipe: dei colleghi, sui quali non si può fare affidamento, che spariscono veramente con vari pretesti, e altri che si scansano al punto che i pazienti diventano nervosi”. Alcuni fanno notare questo disinvestimento dicendo che un paziente ha schiaffeggiato un membro dell’équipe appena ieri. Chiedo cos’è successo nell’équipe: “Contrariamente alla regola applicata abitualmente, l’acting non è stato sanzionato, non c’è stata nessuna esclusione temporanea dell’aggressore”. “Perché questa deroga? Nessuno èintervenuto, ci sentivamo veramente a disagio, paralizzati, in ogni caso non protetti e in un certo senso colpevoli di quello che era successo”. Più tardi diranno che non hanno potuto fare altro che lasciare le cose come stavano. Il silenzio si stabilisce di nuovo e il marasma si prolunga, alcuni lasciano temporaneamente la stanza, senza dire niente: faccio notare queste partenze, ricordo senza essere in grado di interpretare le “sparizioni” evocate, l’acting, il silenzio, i silenzi, gli auguri di morte. Alcuni dicono di sentirsi sollevati dal fatto che io dica qualcosa a proposito delle sparizioni, ma constatano che non riescono a pensare a nulla in proposito, che c’è il vuoto. Dicono che non possono associare niente quando io evoco gli “auguri di morte”. Sono anch’io turbato, non so come pensare a ciò che accade; riesco tuttavia a fare un’associazione con i biasimi che mi rivolgono, di non seguirli con lo stesso ritmo di prima: tutto sommato anch’io li abbandonerei volentieri. Mi chiedo che posto occupo nei loro transfert? Chiedo se viene loro in mente un altro fatto in questo momento, che possa essere così di chiarimento a ciò che succede, per esempio le uscite dalla stanza e forse anche lo schiaffo. Subito viene evocato, con un certo effetto di sorpresa, un episodio che era stato dimenticato da molti di loro: tre settimane prima, era stata organizzata dai malati una specie di cerimonia di fidanzamento fra una paziente che detta un po’ legge e un paziente molto sottomesso, con l’accordo di alcuni curanti: ne avevano accettato il principio, a condizione che si trattasse solo di un gioco. Tutti sottolinearono il lato molto spettacolare della “cerimonia”, ma anche il fatto che non si trattava proprio di un gioco, dato che i due interessati avevano confermato la loro intenzione di mettersi insieme. Ne era scaturito un turbamento e un’eccitazione intensa, nel momento in cui la cerimonia si era trasformata in un inquietante miscuglio di carezze e di colpi fra i due “fidanzati”. Poi, all’improvviso, la fidanzata era sparita e tutti l’avevano cercata per buona parte della giornata, era uscita dall’ospedale. Dopo di che non si era più parlato di quello che era successo quel giorno. Sottolineo quello che ha mobilitato la mia attenzione ascoltando il loro racconto: ciò che loro evocavano riguarda di nuovo una sparizione, quella della fidanzata. Significa qualcosa per loro? I partecipanti parlano dell’inizio della seduta: le sparizioni desiderate riguardano alcuni malati, le sparizioni agite durante la seduta, e questa voce che serpeggiava prima della seduta: che il capo servizio sarebbe stato forse assente. Un infermiere si ricorda di qualcosa che lo stupisce; la sparizione della fidanzata gli ricorda la sparizione violenta della coppia di medici che avevano fondato l’istituzione. L’uomo era morto in un incidente poco tempo prima della creazione del day hospital, la donna, che era stata scelta dal fondatore, era partita subito dopo l’apertura dell’unità di cura, senza darne ragione, e nessuno aveva più ricevuto notizie da lei per molto tempo. Queste due morti erano passate sotto silenzio da allora; i più giovani non ne sapevano nulla. Mi dico che il racconto di questa morte e di questa sparizione delle origini si associerà immediatamente con i loro fantasmi di morte sul capo servizio e sui malati. Al contrario questo ritorno ai fantasmi li affliggerà, li sbalordirà per qualche tempo, prima che il lavoro di elaborazione possa riprendere. Dico loro che se è probabile che i malati soffrano per il disimpegno dei curanti dei loro vari modi di sparire, i curanti non soffrono meno dei pazienti. Senza dubbio, intuendo il mio scoraggiamento, sento che mi hanno messo al posto di quello che potrebbe abbandonarli. Ecco cosa bisognava riconoscere per primo, a partire dal campo transferale e controtransferale. Le ingiunzioni del super-io a “svegliarsi” non avevano altro effetto che rafforzare la loro apatia, ovvero la loro protezione contro la sofferenza. Era la seconda cosa da riconoscere, come il loro bisogno di ripiegarsi nel sonno, evocatore per certi, successivamente, dell’ultimo sonno del fondatore e del silenzio della cofondatrice. Dopo di che sarà possibile parlare delle due scene che l’équipe ha lasciato svilupparsi: quella dello schiaffo e quella del fidanzamento. I più confesseranno la loro meraviglia di fronte a queste scene, il loro stupore di fronte alle sparizioni e la paralisi del loro pensiero. Interpreto che l’interesse di ciascuno, e forse di parecchi, era forse quello di lasciare che si sviluppasse inconsciamente una quantità di segni e di significati relativi alla scena per loro angosciante e affascinante, cio è attraente e repulsiva, e di sistemare contemporaneamente, attraverso le loro difese (l’inerzia, la frammentazione) dei dispositivi di occultamento del senso. Tutti diranno di essersi sentiti inspiegabilmente trattenuti dal punire lo schiaffo, e allo stesso tempo impossibilitati di staccare il gioco dal valore traumatico che la cerimonia stava prendendo: tutto si era svolto come se avessero atteso e temuto questa scena, di cui erano con i malati i registi, i testimoni e i destinatari, la scena fissa di una vera-falsa promessa di matrimonio. Questa trasformazione della scena di fondazione, fissata nel silenzio da tempo mantenuto su un origine segnata dalla morte e dalla sparizione (in uno scenario che porta il senso del loro profondo smarrimento, della loro incertezza sul fatto di essere stati desiderati o meno), al momento di ridefinire il progetto fondatore, rendeva ora intelligibile il loro comportamento: avevano lasciato che si mettesse in scena l’enigma dell’origine cancellata per poterne predisporre i riferimenti di senso. Più si avvicinavano al senso inimmaginabile e più sprofondavano nel marasma e nella confusione. Si è potuto così portare avanti l’analisi sull’alleanza inconscia stretta tra i curanti e i malati. Ognuno prendeva parte a questi acting per il beneficio che ne poteva trarre, e l’équipe li lasciava fare, ognuno trovandovi il proprio interesse, associato a quello degli altri di non sapere ciò che sapevano. Una volta diventata sufficientemente preconscia si potè precisare la portata di questa alleanza: ciò che i malati agivano autonomamente era anche destinato a esigere un senso da parte dei curanti. Questa idea ha permesso di capire perché l’équipe era sempre meno disposta ad ascoltare i malati: questi ultimi aspettavano che l’équipe rinnovasse il contratto di cura che li “fidanzava” entrambi. Al momento di pensare ad un nuovo progetto per l’istituzione, occorreva da ogni parte ignorare e capire ciò che aveva intaccato la fiducia nelle istituzioni delle origini. Il lavoro con l’équipe si prolungò ancora per qualche mese sempre su queste problematiche. L’analisi dei loro transfert su di me permise di evidenziare quello che determinava la loro violenza contro il capo, sostituto usurpatore della coppia di origine. Si trattava di tornare al momento in cui l’atto di fondazione aveva perso il suo valore simbolico e si era ritrovato prigioniero nella ripetizione della scena omicida delle origini: ciò rendeva incomprensibile la posta in gioco di tutta questa fase di violenza anarchica, nella misura in cui condensava il desiderio di morte dell’usurpatore, ma anche di qualunque figura di padre, e la ricerca disperata di un totem in grado di ristabilire l’ordine simbolico e il patto di fratellanza. E solamente al termine di quest’analisi si è configurato quello che era rimasto nascosto della loro richiesta iniziale indirizzata a me: dovevo rifondare l’istituzione e rimanere con loro per l’eternità. Dopodichè potemmo porre termine a questa seduta e separarci.
2. TRE FORME DI VIOLENZA: LA VIOLENZA ORIGINARIA, LA VIOLENZA SIMBOLEGGIANTE E LA VIOLENZA DISTRUTTRICE.
Qualsiasi creazione istituzionale si fonda sul fantasma di una “banda di assassini”. In queste istituzioni noi veniamo confrontati con varie forme di violenza che sorgono quando questo fantasma è cortocircuitato della realtà traumatica di una doppia scomparsa e ne rende difficile la simbolizzazione. La maggior parte del lavoro di gruppo intrapreso con i medici ha permesso di riconoscere nei malati gli effetti distruttori di questa violenza non simboleggiata, che era in essi a loro insaputa. Proverò a dare un contenuto a queste tre forme di violenza: la violenza originaria, la violenza simboleggiante, e la violenza distruttrice. Mostrerò in seguito come queste sono collegate tra di loro in questa istituzione.
2.1. LE VIOLENZE DELL’ORIGINE.
La violenza dell’origine fonda il soggetto nella rappresentazione di una scena originaria. Queste proposte valgono per descrivere la violenza fondatrice dell’istituzione o del gruppo istituito. La violenza dell’origine non è solamente quella di una rappresentazione della violenza; essa è anche quella del desiderio sessuale, quella del desiderio dell’altro e del desiderio per l’altro. E’ necessariamente associata a questa violenza l’investimento o il disinvestimento dell’altro in quanto [egli è] il soggetto dell’origine; essa include dunque il desiderio di sopprimere l’altro e il non-desiderio dell’altro. Con ciò la violenza delle origini si inscrive di primo acchito entro un legame intersoggettivo. Ciò che Freud ha situato nella preistoria, si attualizza nell’origine di tutti i legami e si rappresenta in una scena di questa origine: l’intreccio dei desideri e dei fantasmi che essi suscitano, formano la matrice dell’originario. Così descritta, la violenza dell’origine comporta due componenti delle quali è opportuno proporre una distinzione. La violenza anticipatrice Piera Aulanguier ha messo in evidenza la nozione di una violenza anticipatrice quando ha descritto la situazione nella quale un neonato è pensato attraverso un racconto familiare e attraverso i sogni dei genitori. E’ della violenza del desiderio che si tratta nella violenza anticipatrice: prima di tutto quella del desiderio, di cui la madre anima il suo bambino, segna il suo corpo, e la sua psiche. Senza questa réverie anticipatrice, senza questo pensiero anticipatore e senza le assegnazioni di posti anticipatori che precedono la nascita, senza la violenza che l’accompagna, noi non potremo mai accedere all’ordine umano: saremmo lasciati fuori dal campo del desiderio. In effetti, quando queste assegnazioni anticipatrici non esistono, si può verificare per il bambino una maggior difficoltà a nascere alla vita psichica. Vorrei sostenere la tesi secondo la quale questa violenza originaria anticipatrice riguarda la fondazione di tutte le istituzioni, e senza dubbio di queste micro-istituzioni che sono i nostri dispositivi di lavoro psichico (la cura, il gruppo, l’istituzione di cura). La creazione di una istituzione e di un dispositivo, contiene la necessaria anticipazione da parte di chi l’istituisce di un divenire e di una forma per coloro ai quali essa è destinata. L’anticipazione impegna una parte del loro divenire e costruisce il loro passato. Essa si esprime nella presentazione di un universo già presente, una certa disposizione dello spazio e del tempo che si impone, prima di qualsiasi giustificazione preliminare. Questa anticipazione implica evidentemente un desiderio sull’altro, per l’altro, di qualche cosa che gli permetterà di esistere in questo spazio-tempo, in questo mondo già presente del quale egli è partecipe. E’ questo desiderio che dovrà essere riconosciuto. La violenza inclusa nell’anticipazione può essere definita originaria, poiché essa si inscrive nell’origine del soggetto, lo dirige, lo rende solidale di un desiderio che lo precede. Questa posta in gioco, la ritroveremo in qualsiasi incontro con l’altro, e soprattutto con più di un altro. Il discorso di anticipazione e il dispositivo che rende possibile tale avvenimento viene indirizzato prima di tutto ad un insieme di soggetti immaginari, e non può essere altrimenti. Affinché l’incontro abbia luogo dobbiamo prestarci mutuamente a questo incontro di minima coincidenza. Da una parte l’altro prende forma là dove è atteso. L’illusione, è essenzialmente l’esperienza di questa coincidenza, e la specificità della esperienza psicoanalitica è precisamente quella di rendere possibile lo scioglimento dell’illusione e di riconoscerne le poste in gioco iniziali. Nella sequenza che vi ho presentato, la violenza dell’anticipazione si rivela al momento del ripristino del progetto terapeutico dell’istituzione. Il rinnovamento fa sorgere il passato: al contempo nella figura spaventosa di potenza generatrice terrificante, inafferrabile, e nei movimenti di ritiro di investimenti: l’uno e l’altro pongono la questione del desiderio della fondazione e della violenza che vi è associata. Nel caso di questa istituzione, essa si articola con la difficoltà di mettere in opera il divieto della violenza diretta sulle persone, ad ogni modo della sua sanzione. Il desiderio di morte diretto contro il primario e contro i malati fa apparire una seconda dimensione della violenza delle origini. La violenza dell’assassinio delle origini. In Totem e tabù, Freud descrive il passaggio dalla comunità naturale alla società istituita. L’intera costruzione del “mito scientifico” proietta la questione nella preistoria dell’umanità, dando così alla rappresentazione la distanza necessaria per essere pensata. E’ noto che la questione trattata da Freud era un argomento scottante nella sua istituzione (psicoanalitica) e nella contesa con il suo “principe ereditario”. La questione organizzatrice della violenza delle origini è quella dell’incesto e dell’assassinio ripetitivo che essa suscita: la tentazione dell’incesto (“un fatto antisociale al quale, per farlo esistere, la civiltà ha dovuto a poco a poco rinunciarvi”(1), è quella di un ritorno ad esso. Essa mette in opera la pulsione di morte, dove l’oggetto centrale è il mantenimento dell’identità (dello stesso). E’ per questo che la proibizione dell’incesto fa da ostacolo alla regressione della società organizzata istituita nella società naturale (l’orda, il gruppo, la massa nel gruppo). Freud scrive: “Garantendosi così reciprocamente la vita, i fratelli si impegnano a non trattarsi reciprocamente come hanno trattato il padre. Al divieto di distruggere il totem, che è di natura religiosa, si aggiunge ormai la proibizione di un carattere sociale, del fratricidio”. La rinuncia al fratricidio è il complemento del divieto dell’incesto (2). Nell’istituzione del day hospital, l’anarchia che presiede questo momento di avviamento dei desideri di origine pone tre osservazioni: 1 – la tentazione del fratricidio, che esprime la rivalità tra i medici a proposito dei presunti accaparramenti del primario e il passare sotto silenzio lo schiaffo tra i malati, è probabilmente legato al desiderio di assassinio della figura del padre. Triplo desiderio di morte, parricidio, infanticidio e fratricidio, che la morte reale del fondatore ha evitato e congelato. 2 – La scena del fidanzamento, ritorna come la scena delle origini: essa suscita una eccitazione intensa, che nessun dispositivo contro-eccitatorio potrà colmare e probabilmente vi si associano le rappresentazioni di morte e di sparizione della coppia fondatrice. 3 – La violenza originaria fondatrice dell’istituzione fa costantemente ritorno nel processo dell’istituzione: “le istituzioni indicano tacitamente la possibilità costante di assassinii di altri”, scrive E. Enriquez (3), ma anche, aggiungeremo noi, di loro stesse. Le istituzioni si organizzano per opporsi a questi attacchi distruttori fratricidi o parricidi costituendo dei meccanismi di difesa e di simbolizzazione che servono ad impedire il ritorno all’inerte (siderazione, impossibilità di pensare) o all’informe, le proiezioni persecutorie e gli atti violenti.
2.2. LA VIOLENZA SIMBOLEGGIANTE.
In Totem e tabù Freud ha mostrato come il passaggio dall’orda al gruppo organizzato, dalla natura alla cultura, è costituito dal lavoro stesso della simbolizzazione di un assassinio fin qui ripetitivo, fomentato nel patto stabilito tra i fratelli per uccidere il padre. La simbolizzazione del desiderio di assassinio produce i suoi effetti di strutturazione nella collettività. In effetti, l’uccisione del capo dell’Orda diverrebbe una ripetizione senza fine se al suo posto l’invenzione del totem non avesse trasformato la violenza dell’origine in una violenza produttrice di simboli. Un patto di rinuncia a favore di una forma sostitutiva si sostituisce alla complicità assassina per finire con l’opera di morte: questo patto e questa forma fondano la società. Si può dire altrimenti che le violenze dell’origine, violenza dell’anticipazione e violenza degli assassinii originari, acquisiscono il loro valore istituente e la loro funzione simbolica solo essendo reciprocamente riconosciute come tali. Per questo era necessario un desiderio anticipatorio e un atto di fondazione. Nell’istituzione di cura della quale ho proposto l’analisi, il divieto (e la violenza di cui è il rappresentante) non è stato preso in carico dei medici, nel nome della legge che li organizza. Nessun enunciato garante del legame è stato ricordato, nessuno può prenderne il posto. Il vero-falso matrimonio è, da questo punto di vista, un effetto di questo intoppo nella simbolizzazione.
2.3. LA VIOLENZA DISTRUTTRICE
La violenza secondaria, o violenza distruttrice, proviene da tre fonti. Da una parte, dal ritorno non trasformabile della violenza originaria e della violenza produttrice di simboli; essa testimonia quello che, in ogni incontro intersoggettivo, le due prime violenze lasciano come residui non elaborati. Da un’altra parte, la violenza distruttrice è sotto l’effetto della pulsione di morte, che disgrega e tende a mantenere il principio d’identità. Da un terzo punto di vista, essa è un esito del conflitto fondamentale che Freud mette a margine in “Introduzione al narcisismo” (1914) (lo ripeto ancora): “l’individuo conduce in effetti una doppia esistenza: in quanto egli rappresenta la propria fine e in quanto elemento di una catena della quale egli è servitore perfino contro la sua volontà, ad ogni modo senza l’intervento di essa”. La violenza distruttrice è l’effetto del conflitto tra questi due statuti della “esistenza” del soggetto. Possiamo osservare qualche effetto di questa violenza nelle istituzioni, quando le funzioni simbolizzanti del quadro sono attaccate o sono deboli e quando il ritorno della violenza fondatrice non può essere simbolizzato. Nella sequenza clinica che ho presentato, il difetto di simbolizzazione delle violenze dell’origine è all’origine delle violenze distruttrici che si manifestano nell’istituzione. L’abbiamo osservato quando si è trattato di riproporre il desiderio di anticipazione”, ritornato come ritiro di investimenti, quando i dispositivi di simbolizzazione di desideri di morte non potevano essere mobilitati dentro l’enunciato dei Divieti fondamentali (assassinio, incesto). Abbiamo osservato lo stesso gli effetti: la regressione dell’istituzione verso lo stato di massa, la confusione, l’ipercondensazione, il diniego, la scomparsa delle origini e il dramma che l’ha inscritto nel reale.
3. RIFLESSIONI SUL CAMPO TRANSFERALE-CONTROTRANSFERALE IN UNA ISTITUZIONE DIFFICILE. Le analisi che ho condotto propongono una questione ed un’ipotesi: come – e a quale condizione – il dispositivo istituzionale e gli spazi che egli contiene, permettono la rappresentazione e il lavoro di simbolizzazione di ciò che non ha potuto essere elaborato nello spazio interno. Come deve essere trattato ciò che rimane in sofferenza nella stessa istituzione? L’ipotesi è che ciò che non arriva ad essere significato/interpretato/simbolizzato della violenza delle origini ritorna nella relazione tra i soggetti di una istituzione, nell’istituzione stessa, su una scena e nei luoghi dove si legano, in una maniera intricata e confusiva, la realtà psichica e altri ordini di realtà. Si delinea così la nozione di genealogia istituzionale, il cui oggetto è quello di descrivere le trasmissioni psichiche inconsce che formano le cripte e i segreti di una istituzione, come dire il non rappresentato della psiche degli antenati. Ho sperimentato questa sequenza del mio intervento nell’istituzione come particolarmente difficile ad essere vissuta ed elaborata. Sono arrivato alla seguente ipotesi: negli interventi che noi forniamo nelle istituzioni, l’analista è regolarmente collocato in uno scenario o in una scena fantasmatica al posto del padre. Nel controtransfert, questo posto corrisponde a un momento di grande confusione o a un sentimento di perdita di confini. Questo momento è seguito più spesso (o è preceduto) da un’intensa esperienza di eccitazione pulsionale trattenuta insieme; in questa esperienza, analisti e partecipanti sono confrontati con oggetti fino ad allora impensati e che offrono la rappresentazione dell’impensabile, proprio come la provoca una ferita traumatica. Tutto si svolge come se la rappresentazione e gli affetti che accompagnano questa messa a posto dell’origine non fosse assolutamente possibile comprenderla al momento, ma solamente dopo, quando la rimozione (originaria) effettuata insieme sarà svelata. Lo specifico di una situazione clinica difficile, oltre al fatto che generalmente mobilita il nodo traumatico di ciascuno, si caratterizza anche per il fatto che nel transfert siamo messi al posto incontenibile che ha prodotto il trauma e che, ben inteso, ci ha messo a nostra insaputa. A nostra insaputa, ma non senza che noi fossimo stati sollecitati. In questo lavoro con l’équipe di medici, io ero stato sollecitato a mettermi, e io mi sono messo al posto del padre assassino, del figlio assassino e del Padre scomparso: così posso comprendere i miei ritiri d’investimento, la paralisi del pensiero che mi ha reso alcune sedute particolarmente consonanti con il marasma in cui si trovavano i medici. L’accesso alla violenza delle origini non può essere dissociato dal posto che noi occupiamo nel campo transferale e controtransferale dell’équipe, nella scena della fondazione fissata, congelata, che ha reso impossibile fino ad allora il collocamento nella storia.
* Traduzione a cura di Rosa Romano Toscani.
** René Kaës è psicoanalista, professore di Psicologia all’Università di Lumiére – Lyon 2 – è condirettore con D. Anzien della collezione “Inconscient et culture” delle edizioni Diamond. Lavora da anni nel C.E.F.F.R.A.P. (Cercle d’études Francaises pour la Formation e la Recherche Active en Psychologie).
(1) Lettera a Fliess del 31 maggio 1897.
(2) La violenza introdotta dalla situazione edipica, qualifica la violenza fondamentale come versione della violenza originaria. La formulazione lapidaria come versione di G. Bergeret “lui o io” deve concludersi con la formula, ma completamente garantita “lui e io”. Questa trasformazione èl’effetto del lavoro della civiltà, le cui basi poggiano sull’elaborazione dell’Edipo, considerato come configurazione che include genitori e figli.
(3) E. Enriquez, 1987. Le travail de la mort dans les institutions, in Kaës et al., L’instituzion et les institutions, Paris, Dunod. Trad. italienne chez Borla.