Stefania Marinelli (2000). Sentire. Borla, Roma. Relazione per il seminario di presentazione del libro di Stefania Marinelli all’Istituto Italiano di Psicoanalisi di Gruppo
La mia presentazione è tratta dal lavoro a suo tempo preparato per Koinos,ma vorrei prima usufruire del “felice” intreccio con il lavoro di GiovannaGoretti, riprendendolo quando evidenzia il Sentire in termini gaddiani, come”cognizione del sentire”, e quando specifica nell’operare del gruppo lanecessaria capacità dell’analista, il suo “universo culturale”, la sua”passione” del conoscere, il suo trasformare e la sua scrittura. Tutto ciò, chedobbiamo a Stefania Marinelli e al suo lavoro, mi riporta alle formulazionigaddiane di Francesco Corrao, alla “cognizione del dolore”: “la Koinodinia(l’esperienza del dolore di gruppo) rende possibile di ricostruire e/oricostruire il senso dell’espressione verbale-linguistica del dolore, e diriapprenderne l’esperienza generativa originaria, caratterizzata dalritrovamento della congiunzione costante tra le parole e le cose, tra ilmolteplice e l’uno, tra l’insieme e le parti”. E’ quando soprattutto Corrao si(ci) interrogava che emergeva l’inquietante senso dell’operare in gruppo? Oquando evidenziava il complesso passaggio dal Pathema (“stato emotivo diffuso”)al Mathema ( “l’elemento unitario di conoscenza”) che comportava un paradigmaepistemologico innovativo – che in Sentire si sviluppa chiaramente? O quandoevidenziava la “disintegrazione-riorganizzazione” del testo ricevuto checonsentiva di avvicinarsi alla percezione gruppale? O forse quando, non a casoevocando Pessoa in “chi amo non esiste, chi volli essere mi dimentica, chi sononon mi conosce”, sullo sfondo di un’esperienza duale “confortata”dall’esperienza gruppale, trasformava il “chi sono non mi conosce” in “chi sonomi conosce”, “chi sono mi conosco”, “adesso io conosco noi”? In Sentire,l’oscillazione duale-gruppale espande la conoscenza io-noi. E così, ancora nelpresentare questo libro inizierei dal sottotitolo “Saggi di psicoanalisiclinica” perché sembra subito introdurci nella puntuale e ricca esplorazionedel lavoro clinico che nel testo ci appassiona sino alla fine. Ma “Sentire”, iltitolo, immediatamente ci sovrasta con tutta l’eco corporea della scrittura cheamplifica il nostro ascolto. Si chiedeva Jabès: “è con il sangue del vocabolomescolato al proprio che si scrive?”. E il libro ci pone questo interrogativo.E la sua mano, mentre ci si inoltra nella lettura, richiama di seguito altripensieri. Ancora Jabes: “non si è mai in ritardo sulla nostra vita. Laclessidra, il libro, ogni volta ci indicano l’ora esatta”. E Jabès usava lametafora del libro come esperienza di una pagina attraversata da voci, dove laparola, il “vocabolo” è soglia. La parola di Sentire ci porta a condividere unvertice di ascolto clinico intenso, fecondo, che offre ospitalità agli eventidella corporeità e del pensare nel loro “accadere”, alle voci dei nostripazienti. Nei suoi vari significati Sentire riguarda sensazioni, percezioni,sentimenti, ponendosi come un “conoscere attraverso…” Il Sentirepsicoanalitico di cui parla Stefania Marinelli, come vertice fondamentale della”organizzazione soggettiva del conoscere e del contatto con il reale” (p.11)rinvia allo sfondo bioniano del libro che è amplificato ed arricchito da unapluralità di elaborazioni sempre caratterizzate dal procedere della funzioneanalitica, in cui il “conoscitivo può comparire”. “Conoscere attraverso lapassione” diceva il Coro nell’Agamennone di Eschilo. E questo ci riporta allanecessità di un ascolto che coinvolge l’intera persona dell’analista ma con untaglio essenziale, originale, intessuto di saggezza terapeutica. Così fin dalleprime sequenze cliniche con pazienti psicotici Sentimenti primitivi, l’ascoltodei resoconti dei pazienti mostra che lo “svelamento degli elementi corporei”,la loro “riformulazione all’interno di una condizione che li riconosca erestituisca loro proprietà perdute, potrebbe produrre occasioni di svolgimentoe maturazione prima mancate” (p.37). “Esiste un tipo di paziente – diceStefania Marinelli- che per sopravvivere ha bisogno di sapere che l’analista èinteramente con lui, dalla sua parte, che è lui; ha bisogno che l’analista loiscriva totalmente e continuamente, per lungo tempo, in sé, anche con le suemodalità più estreme e radicali; e solo dopo che queste condizioni siano statevissute, egli potrà manifestare il se stesso più profondo e organizzato chepure esisteva, magari allo stato di precursore, al di là della disgregazione;potrà produrre il suo sé più nucleare, i sé più tangenziali e orbitali, quellipiù separati, quelli più atrofici, sia che la sua sia in effetti una identitàmultipla, sia che le sue scissioni siano del tipo più verticale.” (p.280) Illibro dunque ci propone una problematizzazione della clinica, legata adun’esigenza che muove dall’interno della stanza di analisi, facendo riemergerela complessità e l’affettività che sono alla base del nostro operare. Ed ogniassunto teorico, come ad esempio, la stessa teoria del pensiero di Bion, èprofondamente radicato in esse. Bion diceva che “un’esperienza emotiva avulsada una relazione è inconcepibile”. Qui ci immergiamo direttamente nel tentativodi comprendere cosa accade nell’esperienza emotiva della seduta analitica, di”seguire le avventure sensoriali infinite e appassionate” dei pazienti che “sisentono incompresi, soli e disgregati ogni volta che sentono il contrasto,irreducibile per loro, fra sentire e pensare” (pp.280-81). Contrasto che portaall’errore di considerare il pensiero come primato simbolico auspicabilerispetto alle emozioni che lo altererebbero. Mentre sappiamo quanto il gruppoabbia mostrato la necessità di coniugare insieme emozioni e pensieri con unaplurilogica nella cui estensione si coltiva la capacità mitopoietica dell’uomo.Se, riprendendo Corrao, possiamo ancora dire che “l’uomo è un próblema, unenigma, di cui non si è finito mai di decifrare i molti infiniti sensi”, alloral’oscillazione di vertici di Sentire indica che per entrare nel mondotopologicamente complesso del gruppo sembra occorra una deviazione di senso, inuno spazio paradossale, come la superficie nel gruppo delle pazientianoressiche nella quale è possibile rispondere. Seguiamo il procederedell’analista: “Non appena se ne presenti l’occasione, solitamente reputo utilecreare movimenti oscillatori fra i diversi poli indicati, tessendo maglie di connessioni, occasioni di sentire ed evocare; prospettando immagini a turno amplificanti o restringenti il campo della comunicazione e del sentimento comune in un dato momento; accompagnando i vuoti o il tenue formarsi di legge ripieni con lo scorrere della mia voce, o l’intensificarsi della mia partecipazione corporea e del mio sguardo, o al contrario con il limitarsi della mia presenza nella stanza (…). L’idea è quella di poter offrire una superficie modulare incontro al tentativo del gruppo di lastricarsi, o ingessarsi, o pietrificarsi; di negoziare insieme (…); di contattare per un po’ la scelta di morire, nel senso della sua momentanea sospensione, che pur non ne comprometterà l’apprezzamento o il rispetto. Purché dall’aldilà del futuro, dell’illimitato, dell’assoluto, qualche minuscola sostanza faccia anche fra noi la sua epifania (…)” (p.73). Facciamo ritorno al mondo della superficie di Deleuse della Logica del senso per chiederci che cosa sia e a cosa serva la superficie che l’analista può offrire seguendo la frontiera,perché è qui che “tutto accade”. Il suo riferimento, come è noto, è Alice attraverso lo specchio di Carroll. Sappiamo da Deleuse che quando Alice è alla superficie si chiede: chi sono io? Il non senso in cui si avventura attraversando lo specchio è radice del senso. E il senso appare alla superficie battendola opportunamente e appare come “vapore che si alza alla frontiera” e che è (ritorniamo a Corrao) esso stesso l’evento che cresce per bordi. La superficie lascia sussistere le due serie divergenti del parlare e del mangiare e le fa convergere nel punto paradossale, cerchio di convergenza di ciò che diverge. La via filosofica intrapresa dall’antico stoicismo e ripresa da Deleuse e Corrao è difficile ma certamente lo è anche quella di Sentire, nella sua produzione di senso. L’azzardo del Sentire nell’indicazione metodologica teorico-clinica è la passione per il vivente. L’esistenza del paziente, come ciascun vivente nella sua fragilità e solitudine è al tempo stesso parte del racconto di esistenza dell’analista nella sua capacità di “offrirsi come oggetto totalmente sincero per quello che egli è realmente” (p.14). E’ il sapere della finitudine di cui parla Antonio Prete sul Leopardi che possiamo riprendere per introdurre un tema della seconda sezione del libro, dedicata agli Stati sentimentali della mente, il tema appunto dell’Infinito che muove a parlare di esperienze mai fatte. Come opera l’analista di fronte al sentimento di Infinito che chiede di essere visto, sentito, accettato, elaborato? E quale la risposta attesa? “Ma anche infinita, come infinita restituzione, può essere la risposta dell’analista, nel senso del suo ricostruire, attraverso la propria attenzione elaborativa, in infinito diverso da quello esistente del paziente e che potrà essere interiorizzato come insieme di atti di accoglimento e di riparazione e potrà generare una finitezza nuova e accettabile; così come nel gruppo l’attività costante dell’analista rivolta alla differenziazione e al riconoscimento dei contenuti inconsci e dei loro aspetti comuni e individuali,finirà con il restituire una parzializzazione dell’infinito, pur rispettando i caratteri più espansivi e potenzianti dell’esperienza collettiva” (pp.158-59). Dunque una risposta non satura in cui possa anche risuonare ciò che è caro,come del resto fin dal primo verso del poeta “sempre caro mi fu quest’ermocolle” e grazie a quel limite-soglia oltre il quale l’analista può sospingere a sentire nella dimensione della finzionalità in spazi al confine con l’indicibilità dell’infinito. Un movimento inespresso verso la vita? Come nel gruppo di pazienti anoressiche presentato? Potrebbe apparire semplice la connessione con l’avventura della finzione nei confini del pensiero. E invece il difficile senso dell’ascolto, il movimento dell’analista nel ritmo dell’oltre sa attraversare lo spaurimento e gli orrori. Ma ancora, è un transito complesso che segnala la cautela del ritmo analitico nel procedere del gruppo. Quale vita nel deserto anoressico? La “minuscola sostanza” che possa acquisire un valore nutritivo vitale (p.74) auspicata nel suo apparire alla superficie offerta, pur nel deserto e nella pietrificazione, mi sembra possa manifestarsi (in raccordo al poeta) come “l’odorata ginestra” che con la leggerezza del suo profumo indica l’apparizione di eros , il vento di ogni rinascente primavera. Ma allora il sentire del gruppo cosa muove? E quale è il passo dell’analista nel dialogo entro il gruppo? Si tratta, come dice ancora Deleuse, di un “riorientamento di tutto il pensiero e di tutto ciò che significa pensare”: ancora la connessione di pensiero e sentire. E seguendo il testo di Sentire il discorso avanza con amplificazioni concettuali non definitive, in uno spazio insaturo che consente nuovi pensieri. Di qui il peculiare metodo di pensiero e di pratica clinica che ci rimanda al procedere di Corrao, al suo mantenersi nel logos attraverso il continuo incontro con il pathos. Un incontro che è il nostro rischio infernale poiché, come dice il Marco Polo di Calvino al termine de Le città invisibili “l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce ne è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne, Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. La mia eco è la Koinodinia resa possibile dalla condivisione transpersonale.