Un percorso psicoanalitico. Intervista a Franco Borgogno
Domanda. Il prof. Borgogno, nella sua pratica di analista e autore di molti lavori sulla clinica degli “spoilt children”(1994; 1999; 2011), testimonia del trauma come esperienza di una “omissione di soccorso” che il soggetto ha subìto e che può però arrivare a misconoscere o a non registrare affatto. Si tratta di un’omissione in cui è a suo avviso operante l’“inclusione-intrusione” e l’“estrazione-estraiezione” di un altro che non risponde.
Quali effetti potrebbero derivarne per lo sviluppo di un individuo che ha sperimentato tale modalità di rapporto con un altro aggressore e deprivante?
Franco Borgogno. Interessandomi del trauma a partire dalla mia pratica analitica con pazienti difficili (e cioè afflitti da una grande sofferenza psichica), ho inteso mettere a fuoco sin dagli inizi degli anni Novanta la noncuranza genitoriale come fattore elettivamente patogeno, un aspetto in quegli anni del tutto trascurato e non realmente considerato nella discussione dei casi e nelle presentazioni teorico-cliniche. L‟aspetto principale che caratterizza la noncuranza genitoriale è l‟omissione di soccorso nei confronti del bambino e della sua mente in formazione: un‟omissione grave in quanto una mente può crescere soltanto in presenza di un‟altra mente che le risponde in modo appropriato e corrispondente ai bisogni, ai desideri e alle ansietà che caratterizzano il vivere sin dagli inizi della vita. Che cosa succede, invece, se il genitore che è necessario per lo sviluppo sano di una mente sistematicamente non è presente al momento opportuno e nel modo giusto? Succede che si fa presente un genitore che pur nella sua assenza fisica o psichica compie un‟operazione “negativa” di sottrazione delle “realtà” presenti nel bambino aggiungendone contemporaneamente delle altre. Questo genitore non convalida e non vede aspetti rilevanti del bambino (estraiezione) ponendo al loro posto qualcosa che non appartiene al bambino stesso (intrusione). Un genitore che spoglia la mente infantile inevitabilmente proietta così in essa qualcosa che deriva dal genitore stesso e che non riguarda il bambino. Bion, come scrivo nei miei libri sin dal 1994, ben descrive come l‟atto di spogliazione implichi l‟aggiunta di un quid estraneo, come ad esempio egli fa quando parla dell‟ansia della madre in risposta al bambino come di un elemento che rende l‟ansietà del bambino ancora più intensa privandola di un nome. Ciò che è privato di un nome è però non solo l‟ansia ma anche il bisogno specifico di cui il bambino è portatore in un dato momento e i desideri e i sentimenti correlati ad esso. Questo genitore, anziché bonificare le forme di angoscia catastrofica (inevitabili in un bambino) trasformandole in forme di angoscia fisiologica (è questo ciò che il genitore deve fare), le aggrava ulteriormente non aiutando il bambino né a riconoscerle, né a gestirle. Bion tuttavia, dopo aver fatto queste osservazioni importanti, giunge quasi a eliminarle visto che l‟“oggetto che spoglia” che lui ha così ben descritto diventa subito dopo “un bambino invidioso che spoglia il seno” delle sue qualità e risorse specifiche contaminando il seno con la proiezione-risultato dei suoi ipotetici istinti di morte. Ferenczi, cinquant‟anni prima, aveva fortunatamente descritto la stessa dinamica non sognandosi affatto di rendere responsabile il bambino piccolo, financo il neonato, di quanto è provenuto al bambino a partire da un‟evidente e reale omissione di soccorso di provenienza genitoriale, pur sottolineando anch‟egli come in un bambino così trattato la vita venga inesorabilmente a spegnersi e con la vita che è venuta a spegnersi venga a spegnersi in lui anche l‟interesse per la vita (per il suo sé e per i suoi oggetti). L‟omissione di soccorso è perciò una mancanza di convalida che spegne il riconoscimento degli altri e di sé alterando, se è continuativa, la futura dinamica interpsichica e intrapsichica dell‟individuo. È ovvio che il genitore che “pecca” regolarmente di quella omissione di soccorso di cui ho qui trattato è un genitore “aggressore” e “deprivante”, ed è a questo genitore che il bambino inconsapevolmente via via si identificherà perdendo la possibilità di riconoscere i suoi sentimenti e i suoi bisogni che verranno alterati da questo particolare trattamento che gli viene inflitto e che, se da qualche parte continueranno a esistere, giaceranno assai frequentemente in forma dissociata. Preciso che quando ho introdotto il concetto di spoilt children non avevo solamente in mente madri, padri e bambini ma anche analisti e pazienti, poiché anch‟essi propongono non raramente un‟omissione di soccorso se non includono nella loro lettura delle realtà psichiche questi aspetti che ho inteso qui sottolineare; anch‟essi cioè promuoveranno un trauma e una non convalida, e dunque un impoverimento sostanziale della capacità di riconoscere se stessi e gli altri. Beninteso, bambini e tutti noi possiamo anche esserci abituati a fare i salti mortali, ma non possono essere i salti mortali e il grande dolore che ne consegue la via per crescere in armonia con sé e con il mondo. La via in questione è invece promossa dalla rispondenza del genitore e dall‟appropriatezza della sua risposta, che non deve peraltro essere perfetta né sempre a tono, ma deve tuttavia sapere riaggiustare il tono, rimettersi in carreggiata e trovare il modo di esprimere i propri limiti non addossandoli all‟altro di cui ci si occupa.
Domanda. L’ascolto analitico veicola, nella sua funzione di testimonianza per il soggetto, la possibilità di uno spazio psichico e fisico in cui l’incontro con un altro capace di rispondere permette l’accesso a un percorso in cui il desiderio di essere riconosciuto trova accoglimento.
In che modo la ripetizione transferale del “rovesciamento dei ruoli” opera all’interno del dispositivo analitico affinché il soggetto possa esperire una modalità nuova di rapporto con l’altro, e l’analista operare un cauto “maneggiamento” del controtransfert?
Franco Borgogno. Innanzitutto desidererei porre in evidenza che la funzione di testimonianza viene attuata dall‟analista non tanto in virtù del suo ascolto ma grazie alla sua disponibilità e generosità nel “diventare”, nel corso delle dinamiche di transfert e controtransfert, gli oggetti interni del paziente e le varie parti del suo sé, soprattutto quelle infantili dissociate. Non si tratta affatto, quindi, peculiarmente di ascolto ma di lasciare momentaneamente entrare dentro di sé – e a propria insaputa – le vicende interne del paziente, di essere capaci di lasciarle soggiornare al proprio interno senza volerle immediatamente individuare e falsamente restituire per lentamente elaborarle e riconoscerle in un modo che possa diventare utile per il paziente. È all‟interno di questo processo, che è un processo di enactment, che si presenta quell‟importante dinamica che io chiamo “rovesciamento dei ruoli”: una dinamica che vede il paziente identificato inconsciamente nell‟oggetto “deprivante e aggressore” e l‟analista depositario degli aspetti infantili dissociati del paziente. In queste specifiche situazioni, la posta in gioco – tengo a ribadirlo – non è tanto il desiderio del soggetto di essere riconosciuto e accolto ma il suo bisogno di trovare accoglimento e riconoscimento, poiché è questo bisogno che è andato disertato – in tutto o in parte – nella sua esperienza di vita. L‟analista comunque ha da essere in queste analisi non solo il bambino dissociato ma anche i vari tipi di oggetto che abitano il mondo interno del paziente: sia quelli positivi che quelli negativi, e oltre a tutto ciò in una buona analisi, tanto più con questi pazienti molto sofferenti e disturbati, l‟analista ha da essere anche i genitori che il paziente non ha avuto e non ha sperimentato, e altrettanto il paziente stesso bambino che non è stato ma che avrebbe potuto essere se avesse avuto in sorte un‟esperienza di vita diversa. Lei parla di “maneggiamento del controtransfert” e a questo proposito io vorrei dire che i tempi richiesti all‟analista per “sostenere” questi dolorosi sentimenti di controtransfert sono molto lunghi per cui ci si dovrebbe riferire a essi in questi casi parlando della “capacità di tenuta” dello psicoanalista nella “lunga onda dell‟analisi”, capacità di tenuta che si esplica nel sapere sostare sia nel caos che in PS tollerandoli senza impazienza e senza ritorsioni, oltre che nel saper affrontare le angosce depressive e di non esistenza che accompagnano questa difficile condizione psichica. Vorrei ancora ricordare che questo tipo di pazienti – come ben hanno fatto emergere clinicamente Ferenczi e il Winnicott che lavora con gli stati primitivi della mente infantile ma, teoricamente, anche il Bion di Cogitations – hanno necessità non tanto di interpretazioni ma di sapere se realmente l‟analista conosce le vicissitudini agoniche che hanno caratterizzato la loro vita, se sa gestirle perdendo l‟equilibrio e poi ritrovandolo, e come piano piano egli le sia venute e le venga a risolvere.
Domanda. Sándor Ferenczi, nella relazione del 1932 “Confusione delle lingue tra adulti e bambini”, rifletteva: «Se siamo capaci di riconoscere i nostri errori e di non commetterli più, otteniamo la fiducia del paziente. Questa fiducia è quel certo non so che grazie a cui si delinea il contrasto tra il presente e l’intollerabile passato traumatogeno».
Se la sentirebbe di commentare tale onestà dell’analista, e il credito che potrebbe derivarne per il soggetto?
Franco Borgogno. Il motore del cambiamento e della trasformazione per i pazienti di cui stiamo parlando è, come dice Ferenczi, il “contrasto” fra il passato traumatogeno e il presente, fra l‟oggetto interno e l‟analista reale nell‟esperienza del “qui e ora”. Il contrasto è determinato dal fatto che l‟analista mostra con costanza e continuità il suo tentativo di raggiungere il paziente, di comprenderlo temporaneamente dentro di sé e quindi di giungere a capirlo negli aspetti che il paziente non conosce di se stesso e che non sono perciò accessibili al suo pensiero. L‟analista che fa contrasto, come sempre sottolineava acutamente Ferenczi, non è quello che in un battibaleno si orienta rispetto al caos e alla grave sofferenza del paziente, ma quello che – capace di sostenerli – è in grado di vivere a lungo il caos e la sofferenza per poi emergerne anche dopo un iter di prove ed errori non così encomiabili. La cosa più importante nel saper far questo è non denegare a propria volta la complessità dell‟esperienza vissuta, ma via via riuscire a farla giungere a integrazione per poterla proficuamente restituire al paziente. È questa l‟onestà a cui si riferisce Ferenczi: un‟onestà che l‟analista dà prova di saper acquisire sul campo, quella che – davvero – può diventare per il paziente stesso una nuova “base sicura”. Ovviamente, perché l‟analista faccia tutto ciò, deve prima di tutto dare credito al paziente: il credito il buon analista lo manifesta con questa sua disponibilità a lasciarsi penetrare e ingravidare dal dolore del paziente; ed è di siffatta stoffa la “lealtà psichica” di cui questo tipo di paziente ha bisogno.
Domanda. Prof. Borgogno, in diverse sue pubblicazioni si è occupato di analogie e differenze tra “Diario Clinico” (1932) di S. Ferenczi e “Cogitations”(1958-1979) di W. R. Bion.
Quando e in che modo a partire dallo studio dell’opera omnia di S. Freud e nel ripercorrere l’intera trattazione di S. Ferenczi è arrivato a interrogare la posizione dello psicoanalista inglese?
Franco Borgogno. La mia base è naturalmente stata Freud ma presto sono arrivato a Bion, e prima di arrivare a conoscere e ad apprezzare Ferenczi, che ho incontrato solo di sfuggita nel corso della mia tesi di laurea dal titolo “Un contributo non concluso sull‟istinto di morte”. Lo scritto di Ferenczi a cui mi sto riferendo è lo scritto del 1929 “Il bambino mal accolto e il suo istinto di morte”, uno scritto che in quegli anni avevo letto ma che non avevo potuto utilizzare completamente perché, mentre a me sembrava che parlasse della passione di morte dei genitori (in particolare della madre) e della ricaduta d‟essa sui figli, nella letteratura su di esso era citato come un esempio classico di lavoro che sostiene l‟istinto di morte. Soltanto più tardi, purtroppo, ho iniziato a fare affidamento su che cosa io capivo di uno scritto e non su quanto la letteratura diceva su di esso, ed è così – a partire dal credere a quano la mia mente percepiva – che ho cominciato ad amare molto Ferenczi e a trovarlo sintonico con il mio modo di pensare ai pazienti e alle loro difficoltà (ciò è avvenuto in pratica tra il 1987 e il 1990, negli anni in cui ho cominciato a tenere lezioni per i candidati dell‟Istituto Nazionale di Training della SPI). Su Bion invece, come ho già detto, mi sono soffermato subito dopo la laurea, e precisamente negli anni 1974-76/77, anni in cui ho scritto L’illusione di osservare e in cui ho frequentato come borsista della Fondazione Agnelli i seminari Tavistock sui gruppi (un mese a Leicester in Inghilterra e 15 giorni a Roma), utilizzando i suoi lavori sui gruppi e sul funzionamento della mente per capire il contributo cognitivo e affettivo dell‟analista all‟osservazione dei bambini, della relazione madre-bambino e quindi dei pazienti nel gruppo e di quelli nei trattamenti psicoanalitici individuali. Più avanti negli anni, concentrandomi vieppiù sulla mia esperienza analitica, pur continuando ad amare il Bion teorico, ho cominciato a essere piuttosto critico rispetto alla sua pratica clinica in quanto mi sembrava per nulla corrispondente alle sue nuove proposte teoriche. Bion in sostanza era innovativo nella teoria ma era pedissequamente kleiniano e stantio nella sua lettura del materiale del paziente. Altro che “senza memoria né desiderio”, il materiale da lui portato era considerato dalla A alla Z secondo il classico canone kleiniano del tempo, senza alcuna reverie e sorpresa, e oltre a questo Bion mi sembrava pressoché sordo a ogni eco relazionale rispetto a quanto diceva o non diceva al paziente, non sapendo egli nei fatti leggere la risposta di quest‟ultimo come una risposta a ciò che l‟analista aveva detto o non detto (cosa che invece Ferenczi dimostra di saper fare sin dal suo splendido lavoro del 1912 sui “sintomi transitori nel corso dell‟analisi”). Faccio un unico esempio traendolo in modo personale dal materiale clinico di Bion: se il paziente diceva che sua madre aveva fatto un golfino per lui, ma peccato che l‟avesse fatto di tre misure diverse rispetto alla sua taglia e non del colore che a lui piaceva, a Bion non veniva per nulla in mente che qualcosa non era andato bene di quanto gli aveva interpretato, e analogamente succedeva se il paziente parlava di trovarsi su un pullman estremamente affollato e pieno di fumo, fatto che lui non riconduceva assolutamente a qualcosa che concerneva la loro interazione. Bion era in sintesi, alla mia lettura dei suoi scritti, per nulla a tono e assai schizoide, ma ciò che lo riscattava da questa sua “miseria” era l‟onestà: l‟onestà di sapere che non era per nulla formato, come lui stesso dice, a intendere il lavoro della mente di un bambino molto piccolo, e neppure preparato (data la sua esperienza infantile di bambino quasi orfano) a recepire la comunicazione affettiva preverbale nell‟interazione e tanto meno quella che io chiamo (e che giudico essenziale) “pragmatica della comunicazione umana” nella relazione inter-intra-psichica fra analista e paziente. È per questa sua onestà che ho quindi accostato il Bion di Cogitations al Ferenczi del Diario clinico, come risulta dal mio lavoro per l‟International Centennial Conference su Bion di Torino del 1997: un accostamento coraggioso che mi sono permesso di fare in modo anche crudo (come è noto) in quanto sia Parthenope Bion Talamo che Francesca Bion pensavano che coglievo nel mio scritto qualcosa di giusto in quello che commentavo di lui e del suo pensiero. Bion comunque, dopo la sua traversata dell‟Oceano, ha cercato di modificare il suo modo di porsi nell‟analisi (si è un po‟ “sgessato”), sottolineando progressivamente sempre di più che è il paziente che fa l‟analisi e non l‟analista, in quanto è il paziente che può sapere qualcosa di se stesso e sono in definitiva le sue parole quelle che contano per la strutturazione salda della sua personalità. Bion non ha però a tratti perduto tuttavia, neppure oltreoceano, il suo “zampino” spiazzante, ritenendo egli che lo spiazzamento sia fautore di crescita mentale: cosa che io non credo affatto, soprattutto quando si ha a che fare con pazienti gravi e molto disturbati, poiché al contrario lo spiazzamento è in questi casi del tutto confusivo, come altrettanto confusivo è presentarsi a questo tipo di pazienti come una “sorta di guru”. Lo spiazzamento infatti tutt‟al più va bene per i pazienti in analisi avanzata, ma anche rispetto a essi crea a mio avviso sempre un alone mistico e misterioso che genera idealizzazione e persecuzione, invece che intendimento e condivisione. Questo è pertanto un elemento contraddittorio nel suo modo di procedere analiticamente, che vorrebbe al contrario essere prima di tutto un modo di procedere che affronta le persistenti componenti volte all‟idealizzazione presenti in entrambi i membri della coppia analitica. Per la “par condicio” devo qui aggiungere che anche Ferenczi aveva i suoi aspetti schizoidi e che anch‟io in ciò che scrivo di lui idealizzo Ferenczi come fanno i bioniani con Bion. Certo, lo stra-uso attuale di reverie e sogno non mi piace affatto: reverie e sogno corrispondono infatti al procedere ideale dell‟analista poiché nel lavoro quotidiano, come dice Paula Heimann, vi è molto di automatico e di routinario e quindi non così tanta reverie e sogno. E poi, a mio avviso, quando ci sono reverie e sogno anche l‟analista dovrebbe risultare sorpreso, mentre io leggo molta casistica clinica che vorrebbe essere all‟insegna di reverie e sogno ma che a un ascoltatore come me che ha alle spalle più di trentacinque anni di lavoro sembra mancante del tutto d‟essi, dal momento che a occhi chiusi ascoltando quei casi uno può indovinare con percentuale di giustezza del 95% cosa dirà l‟analista, quell‟analista, e quale sarà il tono della risposta del paziente a quegli interventi. Il paziente, a ogni buon conto, approva spesso l‟analista anche quando questi sbaglia e lui non gli crede davvero. Perché divenga capace di segnalare l‟onnipotenza e l‟onniscienza dell‟analista, il paziente ha infatti bisogno di un analista che sappia lui per primo riconoscerle operanti dentro di sé, diventando critico al proprio interno rispetto a esse.
Domanda. A conclusione di questa intervista, nel suo ultimo libro “La signorina che faceva hara-kiri e altri saggi”(2011), è possibile cogliere il valore di opportunità e destino che la psicoanalisi è andata incarnando per lei, in questi anni di attività clinica, di studio e ricerca.
In quanto ordinario dell’Università di Torino, in che modo riesce a declinare nella sua esperienza di docenza, il complesso rapporto tra discorso analitico e sapere universitario?
Franco Borgogno. Sì, nel mio ultimo libro proseguo la descrizione del mio modo di “essere psicoanalista oggi” soffermandomi su alcuni concetti teorici di base a cui mi rifaccio nella mia pratica analitica. In particolare, illustro in esso attraverso il caso di M – una paziente schizoide deprivata – come l‟ambiente di crescita e le sue qualità si presentino e ri-presentino nelle dinamiche di transfert e controtransfert facendo emergere il peso dei processi introiettivi (ma altresì di quelli proiettivi) caratterizzanti la struttura di personalità di tale paziente (per esempio mediante il rovesciamento dei ruoli). In questa esposizione, corredata di materiale analitico dettagliato, ho voluto affrontare alcune questioni: come essere psicoanalisti con chi ha interiorizzato un oggetto deprivante; che cosa in queste specifiche condizioni psichiche mette l‟analista nella posizione di interpretare e perché; come opera la mente dell‟analista al lavoro con un paziente di questo genere e che cosa lo rende in grado di riconoscere il peculiare dolore del paziente e di poterlo gestire, e attraverso quali lotte e compromessi egli perviene a conviverlo, a darvi un nome e – se possibile – a superarlo; dove sorgono la fede, la speranza e la carità nel proprio impegno di analista con un paziente sofferente di “non esistenza” e “morte psichica”; quali funzioni materne e paterne, maschili e femminili hanno da essere attuate in un trattamento analitico di questo tipo; e così via. Come The Vancouver Interview, La signorina che faceva hara-kiri e altri saggi mostra anch‟esso il percorso analitico di un analista ormai anziano, ma in quest‟ultimo mio libro io discuto anche il mio percorso alla luce di che cosa pensano colleghi di diverso indirizzo teorico rispetto al mio modo di lavorare. Spero – fra l‟altro – che i colleghi italiani lo leggano perché se no, come accade a molti, uno è “straniero in patria” allorché fuori d‟essa è conosciuto. Per quanto riguarda invece il mio insegnamento universitario, io l‟ho lasciato nel 1985 al culmine della carriera a causa di una specie di burn-out per riprenderlo solo più avanti negli anni „90 quando sentivo di avere realmente una mia testa e di sapere che cosa volevo trasmettere. L‟insegnamento universitario non l‟ho comunque mai visto antitetico alla psicoanalisi e alla pratica clinica in quanto sin dall‟inizio del mio impegno universitario ciò che mi proponevo di trasmettere mi sembrava riguardare il nucleo della psicoanalisi stessa e del suo orientamento di lavoro. Per molti anni, come ho già detto altrove parlando dell‟insegnamento della psicoanalisi all‟Università, ho invitato gli studenti a leggere Freud “nel percorso” sia guardando al procedere delle sue idee come si guarda a un proprio “compagno di percorso”, sia esplorando insieme a essi il contesto più vicino o meno vicino in cui esse nascevano giungendo con il tempo man mano a modificarsi tramite un vero e proprio apprendimento dall‟esperienza della relazione con il paziente e dalla propria autoanalisi. Leggere Freud, potrei dire, identificandosi in lui “immaginativamente” ed “etologicamente” (guardando cioè al contesto ristretto e allargato) è stato in sostanza il mio metodo di insegnamento, che da una decida d‟anni a questa parte riguarda essenzialmente l‟ascolto psicoanalitico (il mio corso universitario si intitola difatti “Clinica psicoanalitica dell‟ascolto”) e verte sull‟applicazione dell‟ascolto psicoanalitico vuoi allo studio del pensiero degli autori classici (Freud, Ferenczi, Klein, Heimann, Bion e Winnicott), vuoi alla supervisione dei primi casi clinici visti dai miei studenti della scuola di specializzazione in psicologia clinica. In entrambe le attività utilizzo questo stesso procedimento d‟indagine tenendo conto che chiunque proviene da “molto lontano” e si presenta sempre, nel primo scritto o alla prima seduta, con un “biglietto da visita” in cui annuncia il futuro decorso della sua traiettoria mentale e affettiva. Ovviamente lo annuncia se uno ha in mente il “concetto di percorso” così come io lo intendo. Per altri, che usano altri metodi e altri modelli teorici, il risultato della loro ricerca e del loro insegnamento sarà probabilmente diverso, pur costituendo anch‟esso, come quello derivante dalla mia modalità di trasmissione, uno solo dei tanti spaccati delle varie facce con cui lo psichico si manifesta. ____________________________________________________________________
FRANCO BORGOGNO: psicoanalista, membro ordinario con funzioni di training e di supervisione della SPI e dell’IPA, e professore ordinario di Psicologia clinica alla Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino. Ha ricevuto nel 2010 il «Mary S. Sigourney Award for outstanding contributions to psychoanalysis» ed è da più anni Chair dell’IPA Committee “Psychoanalysis and University”. E’ inoltre vicepresidente dell’Associazione Culturale Sándor Ferenczi e autore di molte pubblicazioni tra cui: La signorina che faceva hara-kiri e altri saggi (2011), Ferenczi oggi (2004) e Psicoanalisi come percorso (1999), editi da Bollati Boringhieri; The Vancouver Interview. Borla, 2007; e con C. Bonomi, de La catastrofe e i suoi simboli. Utet, 2001; oltre che membro editoriale di numerose riviste psicoanalitiche italiane e internazionali.
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Bibliografia
Bion, W.R. (1992). Cogitations. Pensieri. Roma: Armando, 1996.
Borgogno, F. (2003). Il mio primo incontro con Ferenczi. In A. Boschiroli, C. Albasi, A. Granieri (a cura di), Incontrando Sándor Ferenczi. Bergamo: Moretti e Vitali.
Borgogno, F. (1999). Psicoanalisi come percorso. Torino: Bollati Boringhieri.
Borgogno, F. (2007). The Vancouver Interview. Roma: Borla.
Borgogno, F. (2008). Psychoanalysis as a “Journey”: A clinical method for the trasmission of psychoanalysis at universities. American Imago, 68 (1), pp. 93-119, 2011.
Borgogno, F. (2011). La signorina che faceva hara-kiri e altri scritti. Torino: Bollati Boringhieri.
Borgogno, F., Vigna-Taglianti, M. (2012). Role-reversal and the dissociation of the self. Actions signaling memories to be recovered: an exploration of a somewhat neglected transference-countertransference process. In Robert Oelsner (Ed.) (2012), Transference and Countertransference Today. London: Karnac / IPA – Psychoanalytic Ideas and Applications Series.
Ferenczi, S. (1912). Sintomi transitori nel corso dell’analisi. In Opere, vol. 1. Milano: R. Cortina, 1990.
Ferenczi, S. (1929). Il bambino mal accolto e la sua pulsione di morte. In Opere, vol. 4. Milano: R. Cortina, 2002.